È uscito di recente negli Stati Uniti The Cartel, l'ultimo libro del maestro del noir americano Don Winslow, ancora inedito in Italia. Seguito di Il potere del cane, The Cartel è un racconto dettagliato, crudo e realistico della guerra tra i cartelli del narcotraffico che da due decenni sta straziando il Messico e soprattutto gli stati settentrionali di Sinaloa, Sonora, Chihuahua e Tamaulipas, fino a fare di Ciudad Juárez, alcuni anni fa, il luogo sulla terra con la maggior percentuale di morti violente rispetto alla popolazione, prima di Iraq e Afghanistan. Daniel Sada, geniale autore messicano morto nel 2011, usa in Il linguaggio del gioco gli stessi ingredienti, ma li impasta e cucina a modo suo: non tradisce la realtà, che conosce perfino meglio di Winslow, ma la trasfigura facendone un pastiche sublime, tra comicità, sperimentazione linguistica, cronaca e surrealismo. Valente Montaño, uno dei tanti poveracci che attraversano a più riprese la frontiera con gli Stati Uniti, riesce tra avventure e (soprattutto) disavventure a mettere da parte il necessario per avviare un'attività imprenditoriale che possa garantire un futuro sereno alla propria famiglia. Qui interviene il primo colpo di genio, perché Valente aprirà nel villaggio natale di San Gregorio una pizzeria italiana. È solo l'avvio di una sarabanda di invenzioni narrative che porterà il goffo figlio Candelario a diventare improbabile capo-provincia di un cartello della droga e coinvolgerà la tutt'altro che affascinante figlia Martina in una tragicomica storia d'amore con un luogotenente di secondo piano di uno dei narcos. Non manca nulla, nel romanzo di Sada, della crudeltà, della violenza e dell'insensatezza della guerra tra i cartelli. Ci sono i tradimenti e le vendette, le torture e i massacri, la corruzione e le fosse comuni. Si tratta tuttavia di pretesti che permettono a Sada di costruire figure umane inafferrabili nella proteiforme cangianza dei comportamenti e degli stati d'animo, che passano senza sosta e senza preavviso dal dramma al ridicolo, dalla gravità alla beffa. La singolare costruzione narrativa, affidata a frasi spezzate che sconfinano nell'anacoluto, a repentini cambi di prospettiva e perfino di soggetto, traccia un flusso di coscienza collettivo nel quale il dramma del Messico si fa sineddoche dell'universale grottesca insensatezza del destino umano. Esposti alle raffiche tutt'altro che metaforiche di una mitragliatrice che può cancellarli dalla storia da un momento all'altro, i personaggi del romanzo sono marionette precarie, i cui fili sottili, talora inaspettatamente resistenti, più spesso recisi dal più facile dei tagli, non sono manipolate da nessun burattinaio, se non dal caso, che si fa beffe di ogni nostro tentativo di razionalizzarlo. Silvio Mignano
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