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Un titolo essenziale ed esclusivo per esprimere un amore altrettanto essenziale ed esclusivo, raccontandosi dalle viscere, da quel tremendo e ricattante groviglio di passioni che è la nascita, con la pretesa scandalosa di scandagliare il più assoluto dei rapporti. In questo libro del 1954, Albert Cohen, narratore lirico composto e raffinato sulla pagina, quanto dilaniato e pungente nello spirito, racconta sua madre, piccola donna ebrea "goffa e maestosa", capace di annullarsi totalmente nella dedizione ai suoi due unici amori: il marito e il figlio. Il marito sposato per obbedienza e servito con timoroso rispetto biblico "Il vero amore, vuoi che te lo dica?, è l'abitudine, è invecchiare insieme"; il figlio, suo ineguagliabile capolavoro, a cui sacrifica tempo, indipendenza e ambizioni, seguendolo nell'infanzia distratta, nell'adolescenza scapestrata e ribelle, nella giovinezza infastidita dagli impacci di lei e dalla sua inadeguatezza culturale. Con la crudele sfrontatezza del più forte, Albert fa e disfa qualsiasi programma di vita della madre, desiderando misurare nella incondizionata approvazione di lei la sua fedeltà docile e innamorata. Solo quando muore, il figlio diventa consapevole di ciò che ha avuto e ha perso: allora la malinconia si fa strazio, la memoria struggimento, il bene goduto senso di colpa. Infantilmente, ma con testardaggine, supplica il ritorno di questa madre ignorante, che chiedeva al figlio scrittore di suggerirle un modello per i biglietti di condoglianze (" ma non ci mettere delle parole profonde perché sennò si capisce che non è roba mia"); della madre golosa, convinta che lo zucchero non faccia ingrassare perché "mettilo nell'acqua, vedrai che scompare!". Una mamma che, come tutti, "E' venuta, non ci ha capito niente, se ne è andata". "Nessun figlio sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti".
Recensioni
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Albert Cohen lavorò sempre e solo a un unico testo: questo cantico in morte della madre è, in qualche modo, la prova provata di come la sua mente, e la sua scrittura, si organizzassero intorno a un unico centro. Scritto molti anni prima del suo impegno principale, anche questo testo, poco noto persino agli appassionati di Cohen che sono tanti e insegretiti , ha il piglio, la foga, la verbosità che caratterizza Belle du Seigneur. A un'analisi comparata sono rintracciabili tutte le forme verbali, l'aggettivazione, il tu collettivo usato come destinatario, gli esclamativi che connotano in modo inequivocabile le sue scelte stilistiche, rimaste un unicum nel panorama della narrativa francese del Novecento. Ma non solo, anche qui, quante diffuse descrizioni, quanti inserti lirici, quante invocazioni a "voi, fratelli umani" (come mai in pochi si sono accorti che il best seller dell'anno scorso, Le Benevolenti, esordisce, e non a caso, proprio con questa citazione?) che funzionano da anticipazione delle ben più ariose ottocento pagine del romanzo. "O mio passato, mia piccola infanzia, o cameretta con rassicuranti cagnolini ricamati, virtuose oleografie, comodità e marmellate, tisane, pasticche per la tosse, arnica, farfalla del gas nella cucina, sciroppo d'orzata, pizzi antichi, odori, naftaline, lumini da notte di porcellana, piccoli baci serali, baci della mamma che mi diceva, dopo avermi rincalzato il letto, che adesso sarei andato a fare il mio viaggetto sulla luna col mio amico scoiattolo". Come non provare, di fronte a questi elenchi, lo stesso ambivalente effetto che provocano le pagine più famose? Questa madre, diletta, adorata, perduta, fiera di appartenere a un'epoca scomparsa, non riecheggia forse il tratto un po' eccessivo, fuori luogo, spesso noioso, di quell'altra, la Ariane di Solal?
È un piacere leggere Albert Cohen nella traduzione di Giovanni Bogliolo. Esercita un controllo sulla lingua, sulle ripetizioni, sulla punteggiatura assolutamente necessario per attraversare i passaggi più oscuri, a differenza della versione italiana che ancora circola di Bella del signore. Un esempio per tutti: "Il mio dolore e la mia rossa zimarra che il vento apriva come due ali sulla viva nudità che compariva mi rendevano un povero re folle nella notte insopportabile in cui lei mi spiava".
Camilla Valletti
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