Un'enigmatica figura si aggira nel Novecento letterario europeo: è Fernando Pessoa, "taciturno fantasma del mezzogiorno portoghese", come ebbe a dire di lui Octavio Paz, di cui il lettore italiano conosce a memoria, o quasi, certe tappe obbligatorie come i grani di un rosario assai ripetuto: poeta, uno e quadruplo, inventore poliglotta e miope degli eteronimi (il cui numero è sempre provvisorio, settantadue le firme contate finora), l'infanzia sudafricana e anglofona, l'incompiutezza di un'opera sterminata e quasi integralmente postuma, il travet squattrinato e cantore di una Lisbona irrimediabilmente in bianco e nero di caffè e malinconie moderniste, lo strambo e pudico fidanzato di un'inevitabile e shakespeariana Ophélia; e, per i più informati, il filosofo, il critico d'arte e di letteratura, lo studioso di religioni ed esoterismo, lo scrittore di gialli e pièces teatrali, di cronache e pagine d'economia, il "nazionalista cosmopolita" per utilizzare un ossimoro, amata e raffinatissima figura retorica studiata nel poeta da Stegagno Picchio e Jakobson ‒ con cui molti hanno pensato di interpretare tutto di Pessoa (dalle posizione politiche a quelle religiose, da quelle storiografiche a quelle filosofiche). Non ripetiamo la storia arcinota se non per ricordare, a quasi ottant'anni dalla morte del poeta, come la vicenda testuale e biografica di Pessoa abbia funzionato spesso quale dispositivo mitografico, non immune da certi luoghi comuni critici che per di più erano già stati ravvivati, tra il serio e l'ironico, dalla stessa penna dello scrittore. Esiste una stratificata mitologia pessoana che lo stesso poeta si era impegnato a declinare nelle forme di una compiaciuta ritrosia alla pubblicazione ("Non è che non pubblichi perché non voglio: non pubblico perché non posso") e di una cronica incapacità per l'opera finita e conclusa, coscientemente ammessa: "È tutto frammenti, frammenti, frammenti". Eppure in Pessoa a mo' di contrappunto esiste un'estrema volontà progettuale, come attestano nel Fondo del poeta le centinaia di esempi di piani, sistemazioni, schemi, palinsesti sempre aggiornabili e riconfigurabili, perché l'opera frammentaria non è un fine in sé, ma è esclusivamente l'impossibilità di portare a termine un'opera talmente vasta che è in gran parte postuma. Un testo come resto, se volessimo giocare con le parole e i concetti. Anche la condizione postuma della letteratura-Pessoa (di una postumità che non celebra ma dà la cifra del progetto letterario) va ricollocata nella sua giusta dimensione: al di là dei pochi volumi poetici in inglese e in portoghese e dei pamphlet pubblicati in vita, è davvero notevole il corpus dei testi pubblicati in rivista dal 1912 al 1935 per perpetuare ancora l'immagine di intellettuale isolato o marginale nel Portogallo della prima metà del XX secolo. Senza ripercorrere la labirintica vicenda editoriale di Pessoa, la cui ricaduta sulla ricezione traduttiva italiana resta ancora da studiare, basterà avvertire il lettore nostrano, di recente inondato da una nuova e ricca offerta editoriale, che l'inesauribile portoghese continuerà ancora per molto a rimanere un territorio solo parzialmente esplorato e che pur dotati di mappe necessarie, sempre aggiornate e rigorose (edizioni affidabili, traduzioni solide, ecc.), il solo nostro vantaggio sarà ancora perderci in esso con tutto il piacere che ciò implica. Per continuare con la metafora cartografica, Il libro del genio e della follia, recentemente apparso per Mondadori, appartiene a quegli strumenti indispensabili per una buona navigazione in tale oceano, sempre fluido e rischioso. Ricostruito egregiamente e pazientemente dall'edizione critica portoghese curata da Jerónimo Pizarro e riproposto, con una doverosa ricalibratura testuale e paratestuale, in traduzione italiana da Giulia Lanciani, il volume organizza tutta una costellazione di testi in prosa di varia natura (saggistica, narrativa) in cui il poeta ritorna ossessivamente sull'asse concettuale "genio e follia". Potrebbe suonare pleonastico l'avvertimento, ma quando si tratta di Pessoa è sempre meglio stare in guardia: l'introduzione italiana ribadisce con forza come Escritos sobre Génio e Loucura sia un "libro che non esiste come tale, ma è una delle tante, possibili costruzioni che un editore critico può elaborare riunendo una serie di frammenti, associati e associabili in base a certe prerogative comuni: dalla prolungata e discontinua (o intermittente) fase redazionale alla simultaneità di una incompiutezza variamente perpetuata". Lo scettico Borges, che in una immaginaria lettera indirizzata nel 1985 a Pessoa lo eleggeva a poeta del Portogallo, in una sua celebre massima avvertiva: "Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza" (La discussione, 1973). Quello pessoano è allora un testo come resto restituito. Strutturato su dodici capitoli, Il libro del genio e della follia "restituisce" almeno in parte il caleidoscopio di riflessioni sulla questione del genio, della follia e della degenerazione, in un tentativo di aggiornamento e risistemazione del vastissimo dibattito che fonda la modernità culturale europea. Si va dalle riscritture di testi classici del pensiero psicopatologico legato alla creazione artistica (letture che si concentrano particolarmente negli anni successivi al definitivo ritorno a Lisbona nel 1905, una su tutte Dégénérescence di Max Nordau), alle riconfigurazioni di genealogie concettuali come nel caso dell'etopatologia ("la scienza del carattere morboso, cioè la scienza del criminale antisociale, dell'uomo di genio soprasociale e dell'alienato extrasociale"), passando per le speculazioni sull'annosa e forse ormai inattuale (al tempo di Pessoa) questione Shakespeare-Bacon come esemplificazione delle teorie sulla genialità e la sua natura. L'importanza di queste pagine non risiede solo in un'ulteriore esibizione dei complessi meccanismi che regolano l'officina di scrittura pessoana, ma contribuiscono a chiarire come le categorie di genio e follia (al di là delle ovvie ricadute biografiche) funzionino quale agente e legittimazione della stessa eteronimia: "L'origine dei miei eteronimi è il profondo tratto d'isteria che esiste in me. Non so se sono semplicemente isterico o se sono, più esattamente, un istero-nevrastenico". Leggere il Pessoa in prosa è una sfida che illumina meglio il poeta, se è vero che nei celebri versi di Tabaccheria (1928), l'eteronimo -lvaro de Campos ci consegna una delle più perfette rappresentazioni della figura del genio come folle: "Genio? In questo momento / centomila cervelli si credono in sogno geni come me, / e la storia non ne registrerà, chissà?, neppure uno, / e non resterà che letame di tante conquiste future. / No, non credo in me. / In tutti i manicomi ci sono pazzi insensati con tante certezze! / Io, che non ho nessuna certezza, sono più certo o meno certo?». Vincenzo Russo
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