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bellissimo
L’opera di Orazio riflette il suo impegno civico e sociale, nonché la sua opinione su temi tra i più variegati. Amore, politica ed etica si alternano attraverso brevi e veloci giambi che si leggono facilmente e piacevolmente. L’elemento di maggior pregio, a mio avviso, si trova nella traduzione a fronte; molto precisa ed elegante, la messa in evidenza dei costrutti grammaticale consente di comprendere fino in fondo le espressioni oraziane, mai banali e sempre molto eloquenti. Personalmente sento di consigliare questo libro a tutti gli amanti dei testi classici e non solo, la peculiarità di Orazio è che rimane sempre uno scrittore attuale.
L’opera di Orazio riflette il suo impegno civico e sociale, nonché la sua opinione su temi tra i più variegati. Amore, politica ed etica si alternano attraverso brevi e veloci giambi che si leggono facilmente e piacevolmente. L’elemento di maggior pregio, a mio avviso, si trova nella traduzione a fronte; molto precisa ed elegante, la messa in evidenza dei costrutti grammaticale consente di comprendere fino in fondo le espressioni oraziane, mai banali e sempre molto eloquenti. Personalmente sento di consigliare questo libro a tutti gli amanti dei testi classici e non solo, la peculiarità di Orazio è che rimane sempre uno scrittore attuale.
Recensioni
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recensione di Carena, C., L'Indice 1993, n. 3
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)
Gli "Epodi" di Orazio sono diciassette, in tutto 625 versi, le "Odi" centotré, i versi centinaia di più. Ma c'è da dubitare che un traduttore scelga di tradurre i primi anziché le seconde, nonostante l'impervia difficoltà della loro liscia bellezza.
Opere giovanili, composti contemporaneamente alle "Satire" nel decennio 40-30 a.C., gli "Epodi" distano da noi quanto può un genere poetico nemmeno satirico ma d'invettiva, frutto di una cattiveria che poi si è risvegliata soltanto in alcuni umanisti e nel Seicento inglese; o di una rielaborazione culturale di modelli insigni, in cui solo l'antica letteratura s'impegna, quando non addirittura consiste. Pasto, dunque, pantagruelico per un commentatore. E difatti è fittissima e referenziatissima l'annotazione di Alberto Cavarzere a una nuova edizione degli "Epodi" per la collana di "Letteratura universale" Marsilio. Cavarzere insiste sulla natura giambica di questi componimenti e sulla ripresa in essi del modello archilocileo, rimbalzando oltre Callimaco, pure in agguato con i propri "Giambi": ma con un'operazione di pretto stampo ellenistico, se si volle rivitalizzare una traduzione più remota e peregrina. Giambi, gli "Epodi", non nel senso dei ritmi e dei metri ma di un genere poetico di presa diretta e aspra, di sicura baldanza, di rapida e intensa concentrazione; creazione dei banchetti e delle brigate scorrazzanti, in cui fiorivano e si lanciavano questi motti beffardi, stimolati dalle passioni dell'amore o della politica, dal piacere e dall'esibizione dell'oltranza; non solo uno spurgo di bile ma la festosità dello scherzo, la polemica e il ritratto caricaturale, anche l'oscenità, come negli epodi 8 e 12 (che Fraenkel, a Oxford, nel 1955 giudicava "nonostante tutta la loro smerigliatura, ripugnanti"); ed anche, in una nicchia, l'amicizia e l'amore, come mostrano il primo e il quattordicesimo.
Tutto ciò, nella raccolta oraziana, a diversi livelli di riuscita e in modi che spesso richiedono al nostro gusto uno sforzo di penetrazione e una lenta decantazione formale: per inseguire nel breve labirinto dei distici la dislocazione delle parole attraverso iperbati o in eleganti "enjambements", l'eccitazione degli omeoteleuti e delle assonanze; per ricordare e paragonare mentalmente, nel leggere, Ipponatte o Catullo, sentirsi subito presi in Alceo con l'epodo 13 e correre a confrontarlo con la successiva, più vaga e personale ripresa oraziana dell'ode 9 del libro primo: da "Un maltempo da brividi corruccia il cielo, e piogge / e nevi fanno scendere Giove, il mare, adesso, e le selve / rombano di Aquilone il tràcico. Cogliamo a volo, amici, / in pieno giorno il momento opportuno" per bere; al "Vides ut alta stet nive candidum / Soracte, nec iam sustineant onus / silvae, dove tutto è trasformato dalla personalità matura e dalla magia del metro.
Tanto più ardua sarà una traduzione che voglia essere giustamente poetica, che colga il fascino che pur emana da questi versi complessi e oscuri, attraversati sì spesso da un acerbo furore ma anche da una sapienza poetica maturata negli studi e del proprio umore; e del resto gli "Epodi" erano piaciuti molto anche al Pascoli, che in "Lyra" ne accolse ben tredici su diciassette, per il "sorriso iambico" che guizza fra la solennità epica e la tristezza elegiaca, per i malumori che diventano scherzo, per l'alternarsi di idillio e di tragedia.
Così, Bandini asseconda la lirica nell'epodo 2, lungo carme bucolico, luogo comune augusteo, virato beffardamente nei quattro versi finali, ghigno del giovane verso tutte le finzioni, della poesia come della vita. Ma dà il suo meglio appunto nell'epodo 8, con un mirabile attacco di due settenari e di un endecasillabo più settenario ("Tu domandarmi, tu! che ormai ti decomponi / nel tuo secolo d'anni, cos'è che mi affloscia le forze..."), e poi con affondi scatenati, in cui pure abbondano ritmi metrici (ai nostri tempi, c'è qualcosa di simile nella "Bordellesca" di Sandro Sinigaglia). Eppure gareggia ancora in eleganza con l'epodo 15, ferito e finto, neoclassico ed epigrammatico. Col lungo verso Bandini ne appoggia l'interpretazione elegiaca, non smentita nemmeno dal debole, quasi più rassegnato che aspro "fulmen in clausula" (il Cavarzere registra diligentemente in nota, come sempre, le diverse interpretazioni date dai critici al carme).
Bandini ha assunto la rispondenza di linea a linea col latino (del quale non ho rintracciato l'indicazione dell'edizione utilizzata: Shackleton Bailey?); ma disperando anch'egli di racchiudere in un verso italico il compiuto contenuto semantico di un troppo esteso senario e tanto più dell'esametro dattilico nei sistemi archilochei o pitiambici, connette più periodi metrici, ma appena può si gode puri endecasillabi per il secondo verso del distico, con armonie ed eleganze di verseggiatore consumato e di persona intelligente. Anche per questo ha trovato pane per i suoi denti negli "Epodi".
Temperamento di classicista non iconoclasta ma non parruccone, rinnova il lessico tradizionale, per esprimere una sua visione personale dell'immagine poetica o farne sentire le vibrazioni. "Nepos discinctus" è "nipote ozioso" a 1.34; "classicum trux" "un'atroce fanfara", "boves languido collo" "i buoi con allentato collo" a 2.5, 63 sg.; "tibiae" "oboe" a 9.5, "imis sensibus" "fino al profondo del mio essere" a 14. 1 sg... (Ma al v. 10 del secondo epodo, l'italiano "ai tralci cresciuti delle viti / marita gli alti pioppi" sconcerta più che il latino, dove "populi" è femminile).
Più ancora, l'armonia di tono e la perfetta tenuta dell'arco dei componimenti rendono di rara bellezza le traduzioni di Bandini. Componimenti in apparenza semplici, come l'undicesimo, rivelano con l'armonia e la gradazione dell'italiano la loro studiata complessità, i lievi passeggi, l'ispirazione che li regge; rivelano la bellezza delle immagini e dei versi. Così si sente bene come Orazio preparasse con gli "Epodi" le "Odi", mentre scriveva le "Satire", che son tutt'altra cosa dagli uni e dalle altre. E non è facile indicare al lettore un'altra traduzione italiana di questi carmi oggi in grado di sostenere il confronto con questa, che ci ridona una poesia negletta e un genere come pochi altri maledettamente attuale.
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