Regista italiano. Interrotta l'università, comincia a realizzare documentari per una azienda di liquori e, subito dopo, in società con R. Ghione e su idea di C. Zavattini, mette a punto la produzione di un periodico cinematografico, «Documento Mensile», che però si ferma al secondo numero. Tenta poi la sceneggiatura, la recitazione, e anche la produzione esecutiva, ma viene bloccato da un paio di insuccessi che gli chiudono la strada di Cinecittà. Sceglie quindi di trasferirsi in Spagna, dove finalmente può dirigere il suo primo lungometraggio, El Pisito (1958), premiato al Festival di Locarno, cui fanno seguito Los chicos (1959) e El Cochecito (1960). Sono film in cui mostra di aver assimilato il fecondo retroterra letterario della Spagna non conformista, intriso di un certo non-sense, di humour grottesco e di irriverenti venature allegoriche. I riconoscimenti internazionali che ottiene El Cochecito gli aprono le porte del cinema di casa. Tornato il Italia dirige uno degli episodi di Le italiane e l'amore (1961), scrive la sceneggiatura di Mafioso (1962) di A. Lattuada, e realizza nello stesso anno Una storia moderna: l'ape regina, un'opera graffiante, che mette in grottesco l'immagine perbenista della famiglia tradizionale e lo fa incappare per la prima volta nelle maglie della censura. Lo stesso trattamento viene riservato a La donna scimmia (1964), e successivamente – ma questa volta a opera del produttore C. Ponti – a L'uomo dei cinque palloni (1965), che gli viene sottratto, scorciato bruscamente e inserito come episodio nel film Oggi, domani, dopodomani (F. ne acquisterà in seguito i diritti editandolo integralmente in Francia nel 1973 con il titolo di Break-up - L'uomo dei palloni). Non sfugge al medesimo destino Marcia nuziale (1966), che addirittura rischia di non venire programmato. In effetti F. mostra di recitare «fuori dal coro», fuori dagli stereotipi, con quella sua vena corrosiva, lunare, grottesca e stranita. La vena sembra attenuarsi in L'harem (1967), ma esplode in tutta la sua valenza con Dillinger è morto (1969), uno dei suoi maggiori film, che mette definitivamente in chiaro come l'universo di F. nasconda sotto la maschera intellettualistica una natura «istintuale» che fa della forza di un'idea il perno di ogni film. Il cineasta costruisce i suoi apologhi inquietanti quasi sempre intorno a un concetto chiave, che si dilata, si espande e si accumula su sé stesso, e che alla fine si rivela spiazzante, travalicando i margini del realismo per sfociare nell'iperbole allegorica, nell'iterazione ossessiva, nel grottesco. Scambiato inizialmente per un erede del neorealismo, in realtà F. si mostra un cineasta dell'angoscia esistenziale che riesce a far assumere alle proprie ansie e ai propri fantasmi una dimensione universale. Se Dillinger rappresenta una sorta di paradigma dello sguardo demolitorio, iconoclasta e demistificante di F. (nel finale del film un tranquillo uomo qualunque compie un omicidio che appare quasi ineluttabile), l'opera successiva, Il seme dell'uomo (1969), esibisce una sarcastica e allarmante messa in scena delle pulsioni autodistruttive della cosiddetta società dei consumi, con i suoi simboli ridotti a scorie «insignificanti» nella cornice di un desolato «paesaggio dopo la catastrofe» (atomica? ecologica? biologica?). Di lì in avanti, la sua sensibilità indocile sembra aprirsi a una visione del tutto peculiare dei sussulti indotti dai movimenti di contestazione. Non a caso, dopo aver girato La cagna (1972) con il consueto tocco sulfureo, realizza lo straordinario La grande abbuffata (1973), in cui mette in scena una sorta di crapula interiorizzata, allargata per estensione al sesso e alla foia copulatoria. Morire di eccessi gastronomici, lasciarsi andare trangugiando cibo prelibato senza ritegno ma con gran classe, scoppiare con dignità: è il rovesciamento del buñueliano fascino discreto della borghesia, in cui i protagonisti rimangono a tavola come inchiodati. I personaggi di F., invece, hanno deciso un emblematico suicidio, e se ne vanno uno alla volta, in una sorta di smisurato «cupio dissolvi». Allucinato apologo della coazione autodistruttiva del ricco Occidente, attraversato da schegge di sarcasmo feroce, e anche da qualche repentino frammento di struggente tenerezza, con un occhio a F. Rabelais e l'altro, appunto, a Buñuel, La grande abbuffata ottiene il premio della critica internazionale a Cannes, e consacra definitivamente F. nel novero dei grandi registi internazionali. L'anno dopo dirige Non toccate la donna bianca (1974), seguito poi da L'ultima donna (1976), Ciao maschio (1978) e Chiedo asilo (1979). Negli anni successivi il suo cinema sembra diventare un po' manierato, già a cominciare da Storie di ordinaria follia (1981), cui fanno seguito i non perfetti Storia di Piera (1983) e Il futuro è donna (1984). Il suo sguardo non manca certo di rimandare lampi di anticonformismo, umori acidi, gusto per la dismisura e l'eccesso surreale, come, per es., in I Love You (1986), e tuttavia a volte sembra smarrirsi nella ripetizione coatta della propria cifra stilistica, quasi sorpreso da una spiazzante mutazione sociale, come nei successivi Come sono buoni i bianchi (1987), La casa del sorriso (1991), La carne (1991), Diario di un vizio (1993). L'ultimo film, Nitrato d'argento (1996), una sorta di riflessione sul cinema e sulla vita, appare quasi un testamento. (el)