(Roma 1405-57) umanista italiano. Di famiglia piacentina, dopo aver compiuto i primi studi a Roma, fu allievo a Firenze di Giovanni Aurispa e di Ranuccio da Castiglion Fiorentino. Dal 1430 al 1433 insegnò eloquenza a Pavia; quindi, in seguito a un’aspra contesa col giurista Bartolo da Sassoferrato, riparò a Milano e, successivamente, a Genova e a Firenze. Nel 1435 fu chiamato a Napoli come segretario di Alfonso d’Aragona, e qui restò fino al 1448, anno in cui fece ritorno a Roma con gli incarichi di professore d’eloquenza e di segretario apostolico.Nell’opera copiosa e multiforme di V. trovano riscontro e matura sistemazione tutti i problemi posti dalla cultura umanistica. La filologia è ancora al centro d’ogni questione, ma non più tanto come scoperta dei codici antichi quanto come strumento di ricerca e definizione critica del nuovo modello di conoscenza da istituire e come riconquista della dimensione terrena attraverso il pensiero dei classici. In questa prospettiva assume già un rilievo eccezionale il dialogo giovanile De voluptate (1431), poi rielaborato nel De vero bono (1433) e nel De vero falsoque bono (1439-41), dove V. riscatta, contro l’ascetismo monastico, alcuni motivi dell’epicureismo, dimostrando come l’istintiva inclinazione dell’uomo al piacere non sia in contrasto con la morale cristiana. Dietro i toni sarcastici dell’invettiva contro il Sassoferrato (1433) s’indovina una meditata strategia che ha per bersagli la mentalità scolastica e ogni forma di cultura fondata sulla pura e semplice auctoritas della tradizione: bersagli che meglio si preciseranno nelle opere «napoletane» di V. (che risentono dell’indirizzo anticuriale della corte aragonese), e cioè il De libero arbitrio (1439) e le Dialecticae disputationes (3 libri, 1440), l’uno sulla indimostrabilità dei principi di fede attraverso i cavillosi ragionamenti dei teologi, le altre sulla generale inconsistenza dei sillogismi degli aristotelici. Tale orientamento è ancora più evidente nel celebre opuscolo De falso credita et ementita Constantini donatione (1440), in cui un’acutissima indagine storico-filologico-diplomatica giunge alla denuncia di un «falso storico» gravido d’implicazioni politiche: V. rivela cioè la non autenticità del decreto con il quale Costantino avrebbe donato a papa Silvestro i territori di Roma e del Lazio (base del potere temporale della chiesa). La condanna dell’uso mistificatorio di fonti o pseudo-fonti, da parte dei teologi, sarà poi ripresa nel dialogo De professione religiosorum (1442), contro il celibato degli ecclesiastici, e nella disputa del ’44 col domenicano Antonio da Bitonto (il quale aveva sostenuto dal pergamo che il Credo era stato composto, un versetto ciascuno, dai dodici apostoli).Alla battaglia per una distinzione netta tra filologia e teologia (nonché al progetto di una restituzione dell’«antico» allo stato puro) va ricondotto il capolavoro di V., gli Elegantiarum linguae latinae libri sex (1435-44), un lavoro monumentale che tende a ricostruire e ripristinare l’uso preciso della lingua latina così come era desumibile dall’opera di Cicerone e di Quintiliano, al di là delle degenerazioni medievali e delle impurità dei primi umanisti (donde la reazione di P. Bracciolini, che si sentiva toccato personalmente). Le opere successive confermano la sostanziale coerenza di un pensiero e di un metodo: e infatti nelle Adnotationes in Novum Testamentum (1449, lodate e pubblicate da Erasmo nel 1505) per la prima volta la Scrittura viene affrontata in un’ottica razionalistica che provoca una nuova reazione di Bracciolini (alle cui Invectivae in Vallam V. risponde con gli Antidoti in Pogium). Fra gli altri scritti minori si ricordano le Emendationes sex librorum Titi Livii de secundo bello punico e gli Historiarum Ferdinandi regis Aragonae libri tres (1445-46), questi ultimi importanti per l’affermazione del valore della storiografia e per l’uso vivace e a tratti pittoresco del latino: qualità che si ravvisa anche nelle traduzioni da Omero, Erodoto, Tucidide, Esopo e Senofonte.