(Clermont-Ferrand 1623 - Parigi 1662) scienziato, filosofo e scrittore francese. Orfano di madre a tre anni, fu allevato dal padre che, nel 1631, lo condusse a Parigi e poco dopo, assecondando la sua precocissima vocazione per la matematica, lo introdusse nella cerchia di studiosi che si riunivano intorno al padre M. Mersenne; qui P. presentò, a soli sedici anni, un saggio sulle coniche. Nel 1639 seguì a Rouen il padre, incaricato della riscossione delle imposte; per aiutarlo in questo lavoro egli ideò una macchina calcolatrice, capace di eseguire speditamente le principali operazioni aritmetiche («pascaline»). È di questo periodo anche il primo contatto con il giansenismo («prima conversione» di P., 1646). Tornato a Parigi nel 1647, P. continuò, nonostante la malferma salute, i suoi studi, dedicati in particolare al vuoto, all’equilibrio dei fluidi, al calcolo delle probabilità. Nel 1651 gli morì il padre; nel 1652 la sorella Jacqueline entrò nel convento di Port-Royal. Per cercare quiete e distrazione P. frequentò il salotto di Madame de la Sablé, strinse amicizia con il libertino Chevalier de Méré, progettò di acquistare una carica e di prendere moglie. Maturava intanto in lui una crisi religiosa, che culminò nell’illuminazione notturna del 23 novembre 1654. Riavvicinatosi a Port-Royal, P. vi trascorse nel 1655 un periodo di ritiro. Morì appena trentanovenne. Autore di numerosi scritti scientifici, P. deve il posto che occupa nella storia delle idee e della letteratura a due opere scritte negli ultimi anni della sua vita: Le provinciali (Les provinciales) e soprattutto i Pensieri (Pensées). Le provinciali, stese fra il gennaio 1656 e il marzo 1657, sono un pamphlet in diciotto lettere con il quale P. intervenne nella polemica tra giansenisti e gesuiti; esse introducono nella disputa teologica un tono nuovo, un’intelligenza laica educata alle regole del discorso scientifico: di qui la loro profonda efficacia. P. non dice niente che altri giansenisti (per esempio, l’Arnauld) non avessero già detto; lo dice però con uno stile che si affranca completamente dal chiuso linguaggio della discussione scolastica: si è affermato, da parte della critica, che Le provinciali, con il loro brio polemico, hanno aperto la strada a Voltaire, e che è possibile rintracciarvi il disegno di tipi che entreranno più tardi nella letteratura dei moralisti e nel teatro (per esempio, l’ipocrita: La Bruyère, Molière).L’altro capolavoro di P., i Pensieri, è in realtà una serie di appunti e di abbozzi che avrebbero dovuto confluire in una grande opera, dedicata all’apologia della fede cristiana. È dunque sbagliato vedere in essi una sorta di «diario intimo» o di confessione segreta; tuttavia la forma incompiuta, ellittica, vibrante, resta necessariamente legata al senso dell’opera e alla drammatica visione che trasmette. P. vede l’uomo prigioniero della sua finitezza, «ombra destinata a durare per un solo istante», e Dio come un Dio nascosto i cui disegni restano misteriosi; le rotture e le domande, i paradossi e le invocazioni che lampeggiano nei Pensieri hanno per sfondo questa tragica incommensurabilità. Una serie di intuizioni geniali fanno di essi una successione di folgoranti verità rapprese in celebri formule: l’idea dell’uomo come creatura smarrita tra due infiniti; l’opposizione tra mente e cuore, esprit de géometrie ed esprit de finesse; la ripresa eloquente dell’antico contrasto tra miseria e grandezza; la teoria del divertissement come distrazione volontaria dai problemi più assillanti e più veri. La malattia, per P., è la condizione naturale del cristiano; la sua fede è una scommessa in cui tutto viene impegnato, senza restrizioni. Questa violenta presa di coscienza dei limiti della ragione, e dell’impossibilità di assorbire l’uomo «nell’ordine della geometria», giustifica l’accostamento di P. ai grandi maestri dell’esistenzialismo e dell’irrazionalismo moderni, da Kierkegaard a Nietzsche a Dostoevskij: ma non bisogna dimenticare il valore che il pensiero conserva per P. «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma una canna che pensa. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero». Opera in cui si confrontano e si scontrano le esigenze estreme della scienza e della religione, i Pensieri sono, nello stesso tempo, un grande capolavoro letterario, che getta sulla scena un nuovo eroe: l’uomo, come ha scritto G. Macchia, «inquieto, torturato dall’incostanza e dalla noia e dal voler essere felice, nonostante le sue miserie».