(Parigi 1808-55) scrittore francese. Tutta la sua vita fu segnata dalla privazione della madre (morta quando egli aveva due anni): un’esperienza traumatica che non superò mai. E anche le grandi figure femminili che popoleranno il suo mondo poetico non avranno altra funzione che colmare quel vuoto affettivo iniziale. Trascorsa l’infanzia a Mortfontaine, nel Valois, presso uno zio materno, si trasferì poi a Parigi, dove si iscrisse a medicina per volere del padre medico, ma si dedicò in realtà agli studi letterari. A soli vent’anni pubblicò una pregevole traduzione del primo Faust di Goethe. Nel 1834 un’eredità gli diede la possibilità di un viaggio in Italia. Tornato a Parigi, fondò la rivista «Le Monde dramatique», nel tentativo di lanciare un’attrice, Jenny Colon, di cui era innamorato. Sperperate le sue sostanze, visse facendo del giornalismo e scrivendo drammi in collaborazione con Dumas. Un lungo viaggio in Germania e altri in Austria e Belgio precedettero la sua prima crisi di follia (1841). Tra questa e la crisi del 1853 si situa il periodo della sua maggiore fecondità letteraria. Un soggiorno in Oriente, posteriore alla morte di Jenny, gli ispirò un libro denso di simboli, il Viaggio in Oriente (Voyage en Orient, 1851). Nel corso di continui ritorni nel Valois, prese appunti per le novelle Sylvie e Angélique, che saranno poi Le figlie del fuoco (Les filles de feu). Dopo nuovi viaggi, in concomitanza con la ricaduta del 1852-53, terminò e pubblicò: Gli illuminati (Les illuminés, 1852), un insieme di studi su alcune figure di «iniziati» e di pittoreschi personaggi storici del passato; i Piccoli castelli di Boemia (Petits chateaux de Boème, 1852-53) che raccoglie testi, in versi e in prosa, pervasi da un misterioso senso d’irrealtà; Le chimere (Les chimères, 1854), raccolta di sonetti, e Le figlie del fuoco (1854). A un ultimo viaggio in Germania seguì un nuovo internamento. Uscito dalla clinica del dottor Blanche, nel gennaio 1855, si impiccò di notte nella rue de la Vieille-Lanterne, a Parigi. Poco prima di morire aveva scritto un lungo racconto, Aurelia o il sogno e la vita (Aurélia, ou le rêve et la vie, 1855), una delle più suggestive opere di N., benché incompiuta.È nelle letture sterminate di N., nella loro originalità (i pensatori del sec. XVIII, da Rousseau a Restif de la Bretonne, la letteratura occultistica, i mistici e gli idealisti tedeschi), più che nella sua lucida follia, che troviamo la prima matrice della sua arte. Invano, tuttavia, vi cercheremmo una chiave per interpretare Le figlie del fuoco o Aurélia: la trascrizione onirica, il recupero - nella scrittura - del tempo del ricordo, restano esperienze originali e irripetibili. Si tratta di un’operazione addirittura alchemica, nel senso che le sue figure di donne scomparse e rimemorate, ricordi di vite sempre più lontane ma fantasmi sempre più vicini, provocano nel lettore uno sconfinamento nelle remote regioni dell’inconscio. Questo procedimento si fa ancora più ardito nei sonetti delle Chimere, dove il linguaggio simbolico (derivato dai tarocchi, dai riti rosacrociani ecc.) definisce l’allucinata psicologia del poeta. È appunto questa nitida esperienza dell’immaginazione alle soglie della pazzia che anticipa le ricerche dei surrealisti.