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Devo a Nicola Matteucci il mio amore per il liberalismo. Quando ero giovane, fine anni ’60 dello scorso secolo, il liberalismo era ritenuto una ideologia conservatrice, per cui l’utopia anarchica sembrava più affascinante. Il suo libro su “Il liberalismo in un mondo in trasformazione” mi convinse che il liberalismo non è una ideologia conservatrice né una utopia anarchica e che è l’unica teoria politica in grado di reggere la sfida del totalitarismo. Il liberalismo di Matteucci è il frutto della riflessione sul costituzionalismo, ossia sui limiti posti al potere per la difesa dei diritti individuali. La libertà “da” è la libertà dei moderni, ossia la libertà negativa che i socialisti definiscono “libertà formale” in confronto a quella “sostanziale” che è invece il potere “di”. Avere la consapevolezza che la libertà “da” è una condizione necessaria per la cosiddetta libertà “di”, e non il contrario, qualifica il liberale distinguendolo dal democratico e dal socialista. La crisi del regime postfascista, fine anni ’60 primi anni ’70, venne superata dalla “grande coalizione”, tema agitato da Matteucci direttore de “Il Mulino”. Non dico che la storia si ripete, ma oggi abbiamo una nuova crisi di regime con un populismo montante mentre tentazioni di “grandi coalizioni” sembrano riaffiorare. Il rischio che la crisi del regime, come allora, sfoci in conservatorismi e sanguinosi rivoluzionismi, possiamo correrlo anche oggi. Per questo occorre attrezzarsi culturalmente per la costituzione di quel partito della “Riforma” che appare lo strumento più opportuno per passare alla nuova repubblica finalmente liberale e democratica e non rischiare di impantanarsi in una fase di scontro tra conservatori e rivoluzionisti.
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