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recensione di Spampinato, G., L'Indice 1989, n. 6
Nella parola 'liber' confluiscono due significati, perfettamente omologhi in due lingue legate da un'oscura persistenza: 'liber' è libro, ma anche libero, in milanese e in latino. Loi, lirico anomalo dell'esperienza di massa, vive doppiamente la contraddizione dei nostri dialettali. Da una parte è lirico, cioè suggestivamente autentico, proprio perché fa parlare un intero popolo cittadino, fissato in tempi in cui "leggeva i manifesti del Kommandantur, ascoltava il Colonnello Stevens e Candidus, leggeva il Corriere, ma scriveva volantini antitedeschi 'in italiano', ma gridava, bestemmiava, soffriva e malediva e giocava in milanese, e pregava in latino nelle cantine-rifugio ". Dall'altra la sua lingua, modellata su questa ricchezza domestica, è poi lontanissima dall'essere una scorciatoia per ricreare poeticamente "il parlato", per dare vita durevole a ciò che lo stesso dire quotidiano esaurisce e disperde. È quindi tutt'altro che un parlare "aperto", o un affratellarsi "facile" di un popolo soggetto di azione, ma non di parola. Non v'è anzi alcuna possibilità d'intreccio, o di contatto, tra questi due poli: la presenza dell'uno esclude l'altro, la parola è vuoto d'azione. Loi, che raccoglie brandelli di memoria mancata, che rende eroi irriconoscibili, veri a forza d'inattualità, plasma una lingua affrancata da referenti storici quanto da una prassi consumata dal lirismo borghese. Il suo dialetto, non solo e non tanto mai parlato, quanto autenticamente autonomo, è fedele solo "ai suoni e alla coesistenza delle sostanze, alla loro non arbitraria omogeneità. In questa duttilità non magmatica, non eversiva n‚ ponderabile, la lingua risulta materia viva, prodigiosamente porosa, attraversata dalla realtà a cui non può tenersi fedele, venata da radici che, in estensione e in profondità, ne fondano il diritto d'esistere, da sempre e per sempre. Un acuto profeta come Fortini aveva intuito per Loi un posto di diritto nella nostra costellazione letteraria, ma "riconosciuto soprattutto da una qualità di lettori che non dovrebbero piacergli e negato da coloro che della sua poesia più avrebbero bisogno". Sono costoro i fratelli che non scrivono, ma pagano a caro prezzo l'incorruttibile saggezza dei poeti, in un lavoro allo scalo merci di una stazione qualsiasi, in una qualsiasi morte da povero.
Vent'anni di lavoro poetico, approdati a questo 'liber', rafforzano le ragioni della lettura di Fortini e insieme la rendono inattuale. La lirica di Loi, come su rimarginate ferite di brutalità e d'idealismo, ha compiuto una parabola, una felice ascensione al reale di tutti. E qui muore Pasolini ("Furlan, puèta, òm d 'antiga sciensa,/ per rabbia e per vergogna t'àn cuppà") muore in un letto d'ospedale l'amico Giulio, che leggeva "i grandi" e non correva dietro le riviste letterarie ("Oh, svéliess! ciama mo l'umbrìa,/e quèl lassàss andà, quèl sbandun…ss. ."), moriamo tutti noi della paura di vivere ("G'u^ pagura, cumpagn...' e la parola/ghe brancava nel venter. Ma chi l'è?/ Perché?... "). Nella "Cumedia" della vita non esistono atleti, anche i poeti possono avere solo un dolore per volta, un amore per volta ("Se mì duèssi, mì, vègh du dulur,/ vun sul ne sentarìa, cume fan tucc "). E in questo "pianissimo " di disciplinata, armoniosa tensione, s'invera il grande magistero di Vittorio Sereni.
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