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Libro complesso. Iniziativa editoriale atipica e coraggiosa. Michele Salvati ha il merito di essersi adoperato per la sua riuscita. Presenta infatti ai lettori italiani il sociologo e filosofo della politica spagnolo probabilmente oggi più apprezzato dalla comunità scientifica internazionale, ma pressoché sconosciuto in Italia, e che meglio ha spiegato le peculiarità della Spagna del dopo-Franco. Rispetto all'edizione originale statunitense del 1999, quella italiana presenta quale principale variante il corposo capitolo conclusivo, scritto appositamente.
Ma andiamo per ordine. L'interesse di Salvati per questo lavoro di Pérez-Díaz, di cui è estimatore e amico, muove dallo sconforto per la situazione italiana ed è strumentale. Ma lo è in modo dichiarato e pertanto innocente. Perché la Spagna, che usciva da una lunga dittatura, è stata capace di costruire un sistema politico stabile e una società civile, mentre l'Italia dopo il fascismo non è stata capace di fare altrettanto? La risposta che Salvati offre problematicamente agli storici, invitandoli ad "approfondire, qualificare o contraddire", distingue correttamente le differenti circostanze storiche e il periodo, e pur tuttavia chiama in causa l'ingombrante ruolo dell'antifascismo e del Pci come ostacolo all'alternanza e al bipartitismo. Per contrasto, sottolinea il carattere virtuoso della transizione negoziata spagnola e del "patto dell'oblio". Si sarebbe così evitato di fondare la democrazia sull'antifranchismo.
Al centro della ricerca di Pérez-Díaz stanno i meccanismi attraverso i quali si è prodotta in Spagna la "civilizzazione dei conflitti normativi" a partire da una nozione di "società civile" (già oggetto del suo principale lavoro: El retorno de la sociedad civil, Madrid, 1987), che l'autore non intende come qualcosa di diverso dal mercato, dal sistema politico e dallo stato, ma come l'opposto della società incivile, e come sinonimo di democrazia liberale pluralista compiuta, governata da regole certe e condivise.
Il libro si compone di una serie di saggi che indagano la società e la politica del paese iberico in varie direzioni: indugia sulla parziale compensazione che la fitta rete associativa offre alla debolezza dei partiti e sindacati; spiega perché la famiglia costituisca la pietra angolare dello stato sociale spagnolo; accenna alle continuità strutturali tra franchismo e post-franchismo, soffermandosi sul ruolo centrale della generazione che si è affacciata alla vita politica tra il 1956 e il '68, ma anche sulle ambiguità di una transizione che ha fatto fingere i franchisti di non essere mai stati tali e agli uomini di sinistra inclini ai compromessi di essere rimasti fedeli agli obiettivi di una volta; esamina poi il fosco dramma pubblico che si consuma tra il 1993 e il '96 all'emergere delle trascorse attività antiterroristiche illegali e la successiva, incredula, deriva socialista; tratta infine della grettezza e del provincialismo che premia gli immeritevoli nei concorsi universitari.
Lo studioso, soprattutto, scorge negli anni novanta un positivo spostamento lungo tre assi: 1) dagli scandali dell'antiterrorismo illegale alla normalità politica; 2) sul piano economico, dallo statalismo e corporativismo a un maggiore liberismo; 3) nella lotta politica, da uno stile di contrapposizione frontale a uno più moderato. La sua tesi di fondo è che con il contributo di varie forze (partiti, associazioni, famiglia), di una generazione (quella del 1956-68) e della decisione di lasciare da parte il passato (guerra civile e franchismo) la Spagna sia riuscita a creare un sistema e una società maturi, cioè civili, in grado di reggere all'alternanza, mondare le illegalità senza mettere in discussione le fondamenta del sistema politico, della convivenza civile e soprattutto in grado di affrontare con certo ragionevole ottimismo le sfide del futuro. Anche se, a questo proposito, l'autore non nasconde che i tre punti deboli delle politiche spagnole dell'ultimo scorcio del secolo riguardano proprio il futuro, il problema dell'identità e del ruolo della Spagna nel mondo.
Gli spunti per la discussione che il volume offre sono così tanti da non poter essere in questa sede neppure elencati. Nell'agenda del futuro dibattito difficilmente mancherà la "questione nazionale", che non occupa nelle due parti di cui si compone il volume il posto che avrebbe dovuto e che mina la fruibilità della "lezione spagnola". Forse, con minore autoreferenzialità disciplinare e l'ausilio della gran mole delle ricerche storiche dedicate al problema nazionale e dei nazionalismi detti periferici, l'autore avrebbe messo meglio in luce il ricatto e la minaccia che costantemente incombe sul sistema politico e quindi sulla democrazia spagnola. Tanto più, oggi, all'indomani dei tragici fatti madrileni dell'11 marzo. E Salvati sarebbe stato indotto a considerare con altri occhi le conseguenze della smemoratezza durante la transizione, che, per quel che riguarda appunto l'irrisolta questione nazionale, appare oggi meno idilliaca ed esemplare di quanto la si sia voluta raccontare e interpretare finora.
Fatta la tara dell'esempio che viene dal caso e dal modello spagnolo, c'è comunque una lezione che il libro dispensa ed è quella che fornisce il suo autore, attento - sulla scia di uno dei suoi referenti culturali, il filosofo morale José Luis Aranguren - a indagare, senza moralismi, anche i risvolti etici dei processi politici, convinto com'è dell'ineludibile necessità, per un consorzio umano che aspiri a essere civile, di fondarsi su una pubblica moralità, intesa come moralità nella e della sfera pubblica. Veramente una lezione e un campo d'indagine per gli scienziati sociali e gli storici.
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