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Il saggio che qui pubblichiamo per la prima volta in volume, occupa sicuramente un posto privilegiato nell’opera di Furio Jesi. Vera e propria cellula originaria, e, insieme, sorta di talismano cui Jesi affida i propri “pensieri segreti”, esso stringe attorno al testo poetico rimbaudiano quelli che saranno i concetti fondamentali dell’officina del grande mitologo: il nesso tra opera letteraria e prassi politica svolto nell’opposizione di rivolta (evento che sospende il tempo storico) e di rivoluzione (complesso di azioni volte a cambiare una situazione nel tempo); l’identificazione di una formula mitica della modernità nella nozione complessa di luogo comune, e la riflessione sullo statuto di merce della creazione; poi, soprattutto, il contributo decisivo di Jesi alla scienza del mito, la definizione della macchina mitologica come ordigno innescato da una non-esistenza (qual è propriamente il mito), che, proprio per questo, irretisce gli uomini in false alternative dalle quali non c’è via d’uscita. Ma, in queste pagine densissime, in cui il pensiero di Jesi sembra urtarsi al proprio limite estremo, sembra anche aprirsi per un istante un varco al di là della macchina e delle sue aporie.
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Con quanta ricchezza di pensiero, originalità di scrittura, profondità di sentimento e indipendenza critica Furio Jesi avrebbe arricchito il panorama culturale italiano, se una morte precoce e ingiusta non l'avesse strappato crudelmente ai suoi studi e a chi lo amava e stimava. Lo intuiamo con grande rimpianto anche solo leggendo queste straordinarie pagine di commento a Rimbaud, scritte nel 1979 e riproposte da Quodlibet nel 96. Come Rimbaud, Jesi era stato un adolescente geniale e inquieto, refrattario ad ogni compromesso: forse a questa comune sensibilità (sfociata poi in una similitudine di destino che li portò tutt'e due a morire prima dei quarant'anni), si deve l'appassionato fervore con cui lo studioso torinese seppe penetrare il testo poetico rimbaudiano, "in una sorta di disincantata divinazione", secondo quanto suggerisce Giorgio Agamben nella sua ammirata prefazione. Entrambi "diversi", Jesi e Rimbaud, entrambi ingenuamente "infantili" nel rifiutare il mondo del potere, pertanto naturalmente in rivolta: "esiste simmetria tra il riconoscere nell'infanzia valori autonomi, un regno diverso, e nella poesia un regno abitato da diversi, ma uno solo è il processo entro il quale si giunge a codesti riconoscimenti di differenza, - e poi alle tecniche di sfruttamento dei diversi". Poesia e infanzia hanno voci profetiche, pertanto disturbanti, da allontanare o mercificandole o imbalsamandole in monumenti retorici, elargendo "sopravvivenza e guadagno". La loro ribellione consiste nel seguire utopicamente un sogno di sconfinamento, come quello del "Bateau ivre", "che tenta l'esperienza di un regno in cui libertà è purificazione, veggenza e morte": se poi poeti e bambini finiscono per adeguarsi "alla falsa oggettività imposta dagli adulti" ecco che il loro battello volontariamente si trasforma in una barchetta di carta, che galleggia in una pozzanghera "noire et froide". La rivolta del poeta bambino Rimbaud si cristallizza nel suo rifiuto dell'Europa, e della poesia.
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