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A otto anni dal primo e a quattro dal secondo, nel 1546 Aretino raccolse nel terzo libro le lettere del periodo ottobre ’42-febbraio ’46. Il quarto uscirà ancora quattro anni dopo. La regolarità dell’accumulo, dell’allestimento editoriale e della stampa dei nuovi testi – all’apparenza meccanicamente fisiologica, di fatto in sé eccezionale, senza antecedenti né emuli – non cela però le fenditure che nel corso di quegli anni si erano venute aprendo, nella sua vita e nella sua opera, rispetto agli standard del decennio precedente. In effetti la materia e le parole del terzo libro si muovono all’interno di due eventi di grande portata simbolica, l’incontro coll’imperatore del 29 giugno 1543 e la dedica a Paolo III dell’Orazia (I settembre 1546). L’uno e l’altro tali da sancire la ridefinizione di Aretino come uomo pubblico e come scrittore alto, con riflesso immediato nella qualità stessa della scrittura, sottoposta a un controllo da cui discende un decremento evidente della componente espressivistica. Ridefinizione per di più confermata dalla scelta del nuovo editore, Gabriele Gioito, imposta dalla defezione cipriota di Francesco Marcolini. L’avvicinamento ai Farnese, conseguente al miraggio di un cappello cardinalizio che il neoduca di Piacenza Pier Luigi avrebbe chiesto per lo scrittore, si riflette se non sulla genesi, di certo sulle fasi conclusive della gestazione del libro, al punto da imporre l’improvviso cambiamento di rotta denunciato dalla serie delle varianti di stato e dalla sostituzione di due lettere. Certo, permangono le difficoltà e gli affanni di sempre; invidie, gli attacchi, soprattutto le incertezze nella riscossione della pensione (che questa volta però, in forza della presa di posizione di Carlo V, consente di risolvere in battuta sprezzante la contrattazione defatigante e mai risolutiva coi ragionati milanesi: «le supplicazioni, le preci e le querele, ch’io porgo a qualunche in riscuoterla mi può giovare, sono di poche pennellate d’inchiostro, che nulla valendo, assai avanzano» lett. 185, a Pasquillo). E in più balenano veleni romani contro gli scritti sacri (lett. 152 e 153; da riconnettere in qualche modo all’ipotesi del cardinalato?). Ma a segnare quegli anni sono anche altre vicende, meno pubbliche anche se non sempre del tutto private; la quartana del ’43; la malattia e la morte di Perina; l’accoramento sincero per l’incidente della Libreria occorso a Iacopo Sansovino, risolto nell’immediata attivazione in suo favore; o anche le petizioni reiterate, a Venezia e a Roma, a fianco del cardinale Bembo e dei patri Corsaro, in favore di frate Giulio da Milano, arrestato dal nunzio pontificio. A conferma della volontà di ritratto ampio, a tutto tondo, consegnata alle Lettere.
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