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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2014
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Trovo che titolare la raccolta epistolare come "Lettere sulla poesia" crei una aspettativa tale da indurre il lettore a credere di trovarsi di fronte a lettere in cui la dissertazione estetica o le dichiarazioni di poetica siano in primo piano. Gli interventi di estetica e poetica, tuttavia, trovano una spazio marginale e poco articolato. La grande introduzione iniziale, probabilmente, cerca di supplire a questo fatto. Non lo ricomprerei né consiglierei. Consiglierei, invece, "In difesa della poesia" di Shelley, per chi avesse il desiderio di indagare una parte della poetica dei romantici inglesi.
Nelle lettere qui raccolte, indirizzate agli amici, ai parenti e alla fidanzata tra il 1817 e il 1820, Keats si soffermava soprattutto sui temi che più gli stavano a cuore: in primo luogo, quindi, su cosa si dovesse intendere per "poesia". Per lui, scrittura e vita si identificavano completamente; alla propria opera il poeta aveva il dovere e il compito di dedicare ogni attimo e pensiero dell' esistenza («Ho pensato tanto alla Poesia e tanto a lungo di seguito che non riuscivo più a dormire la notte?», «Sento che non posso vivere senza la poesia»), al punto di rinunciare alla sua realizzazione come uomo, sacrificando qualsiasi soddisfazione materiale, scegliendo la solitudine, il fallimento professionale, l'incomprensione sociale, la povertà. Alle cose reali, il poeta deve anteporre la devozione verso l'immaginario, al corporeo l'incorporeo: solo così la poesia potrà nascere sorgiva, spontanea, naturale: «Se la poesia non viene così naturale come le foglie all'albero è meglio che non venga affatto». E il poeta, interprete sommo dell'arte, deve riuscire a dimenticarsi, perdendo consapevolmente la propria identità, deponendo il suo "self", per farsi portavoce di un Assoluto che lo trascenda, per fondersi con la Bellezza intesa come Verità. Ecco che allora approda a un'estasi, a una visione che lo svuota di sé, lo sorprende e rapisce in un'attesa indefinita, rivelatrice di gioia pura, gratuita, illuminante. Sacerdote di un esperire visionario, di una verità archetipica nell'ombra, il giovane Keats si immolò sull'altare della poesia, presagendo la sua morte precoce. Struggente ci appare l'ultima frase dell'ultima lettera - diretta all'amico Brown -, consapevole che il suo addio sarebbe stato definitivo, e temendo tuttavia la retorica dell'abbandono: «Sono stato sempre impacciato nel prendere congedo». Sicuro, comunque, della grandezza della sua arte, a cui aveva dedicato fino all'estenuazione i suoi ventisei anni: arte che l'avrebbe reso unico e immortale.
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