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Sotto le righe del racconto vibra un pianto d’addio all’innocenza, alle isole, alla possibilità di vivere leggendariamente. Cioè, semplicemente, di vivere.
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La “Lettera al dottor Hyde” (25 febbr. 1890) — nella traduzione di Orsola Nemi e Henry Furst — occupa in verità la seconda metà del libro, ed è un magistrale esempio di arte retorica e di attenzione morale per onorare il ricordo di Padre Damiano, missionario fra i lebbrosi delle esotiche isole dell’arcipelago hawaiano. (Siamo press’a poco intorno agli anni del viaggio di Gauguin a Tahiti). La precede un utile e piacevole scritto del curatore del libro, Athos Bigongiali, dov’egli spiega come sia casualmente giunto a conoscere questo testo stevensoniano e lo contestualizza nel perimetro dell’esperienza in estremo Oriente, da S. condivisa con tutta la famiglia. L’occasione è data dalla cagionevole salute dello scrittore e dal clima favorevole del Pacifico con i suoi “balsamici venti”; inoltre, l’eredità paterna gli permise di noleggiare un panfilo, Casco, e di approdare “a Honolulu alla fine del 1888”. La difesa di un piccolo uomo di chiesa assunta da S. nelle vesti di ‘advocatus diaboli’ (the DEVIL’S ADVOCATE) contro le gratuite maldicenze del dr. Hyde, un reverendo protestante di Honolulu, è una affettuosa e sincera approssimazione umana a un religioso con molte pecche ma eroicamente innocente. La lettera, però, è anche una dura invettiva e un infiammante libello contro l’inerzia clericale, che, usando espressioni iperboliche e volutamente eccessive, tocca e incide parecchi nervi acutamente sensibili, per rimodellare avanti agli occhi del lettore un ritratto di Father Damien credibilmente somigliante, diverso dall’“astrazione di cera” imbastita in malafede dal dr. Hyde. E si noti: il curatore ha optato in italiano per un titolo che ha un chiaro richiamo all’opera maggiore di S., pur specificando nel risvolto che il dr. Hyde “nulla ha a che fare col doppio di Jekyll”; ma ormai nel lettore la sovrapposizione è avvenuta: Mr. Hyde e l’omonimo reverendo nel loro ottuso aderire al male si somigliano. Mentre Padre Damiano “era un uomo buono, intromettente”, cioè partecipe.
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Capitava a Robert Louis Stevenson, uomo benevolo come pochi, di essere accusato da moralisti stupidi di mostrare troppo spesso nelle sue opere il male trionfante. In realtà, ciò che interessava alla letteratura - e alla filosofia - di Stevenson era qualcosa di più profondo del bene e del male, l'innocenza: ovvero l'intrinseco legame di appartenenza di un posto, di un tempo, di una persona, a un unico disegno, da cui naturalmente estrarre la leggenda, il romanzesco. Era un modo di consegnare ogni cosa al suo valore vero, in cui il male propriamente inteso era solo - da qui l'incantevole amabilità di Stevenson - l'uniformità, vale a dire la negazione dell'altro. Si capisce perché il non grande episodio occasione di questa invettiva, abbia acceso la generosità di Stevenson. Il dottor Hyde (che nulla ha a che fare col doppio di Jekyll), reverendo protestante delle Hawaii, aveva calunniato in un breve scritto la memoria di un santo missionario, Padre Damiano, morto condividendo la vita in lazzaretto degli isolani lebbrosi. Hyde, infangando un'anima grande, dava voce all'ipocrita superstizione dei bianchi più impegnati nella «modernizzazione» delle isole, che la piaga recente della lebbra fosse l'effetto di una vita selvatica e dissoluta, pigra nell'assimilarsi alla sana civiltà dell'uomo bianco. Stevenson è appena giunto nei Mari deI Sud, dove vivrà gli ultimi anni; ha già conosciuto, assieme alle fantastiche meraviglie, il morbo che accompagna, come una maledizione o una premonizione, la paziente sottomissione degli isolani. E sotto le righe del racconto di Padre Damiano, in difesa della sua memoria, vibra un pianto d'addio all'innocenza, alle isole, alla possibilità di vivere leggendariamente. Cioè, semplicemente, di vivere.
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