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Anno edizione: 2016
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Tutte le strade portano a Roma città aperta - Jean-Luc Godard
Fra le prime pagine di questo terzo Lessico del cinema italiano si legge: «la vita non è altro che la sua forma, e la forma si genera vivendo». Eppure è proprio intorno all’aporia pirandelliana dell’impossibile patto nuziale fra vita e forma che si sviluppa questo glossario. Teatro delle ombre, un tempo sacro ora profanato dalle inondazioni di prodotti mediali, il cinema è sempre stato struggle prometeico per dominare le parvenze degli uomini. Decisiva la battuta di Richard Harris nel Deserto rosso di Antonioni: «Tu dici cosa devo guardare, io dico come devo vivere, è la stessa cosa» (da Quotidiano).
I lemmi di questo terzo volume, che chiudono il progetto curato da Roberto De Gaetano sono: Quotidiano (a cura di Carmelo Marabello), Religione (Alessio Scarlato), Storia (Christian Uva), Tradizione (Luca Malavasi), Ultimi (Alessia Cervini), Vacanza (Ruggero Eugeni), Zapping (Alessandro Canadè). Le parole e le cose: sotto l’egida di Foucault e del metodo genealogico si modellano, per ciascuna voce trattata, gli araldi filmici italiani, dalle apparizioni primitive del cinema d’inizio Novecento fino ai film contemporanei (ogni intervento si apre con il riferimento a una pellicola recentissima), giacché il cinema è sì un racconto per immagini, ma è soprattutto un racconto delle immagini.
Adesso che l’opera è giunta a compimento possiamo apprezzarne la notevole portata. Glossario del presente, anzi, dell’immutabile, il Lessico funziona come un’investigazione fra le costanti esistenziali e storiche dell’Italia laddove vita e forma tentano di trovare un (precario) punto d’incontro. Indagine radiologica di un paese acrobatico, pericolosamente fabbricato su un vuoto identitario: è questo il referto.
Il programma di studio è semplice: «adesione al fluire dell’esistenza attraverso una serie di termini chiave che fungono da emblemi» (dalla Postfazione di Francesco Casetti). La complicazione dipende dal fatto, però, che il cinema italiano presenta «una lingua che si identifica con il mondo, e un sentimento della vita che si oppone ai processi di formalizzazione». Perfino per quei registi che sembrano alfieri di forme cristallizzate – la triade Visconti, Fellini, Antonioni – è semmai più lecito parlare di una «maniera» condotta da gruppi eterogenei di cineasti in modi irregolari.
Vita e forma dunque si guardano, si studiano, entrano in un rapporto dinamico, per di più sollecitato da un bradisismo palpitante: sotto il tumulto della vita come urgenza, come necessità informale ecco che i filamenti brillanti di un immaginario strutturato riemergono e tutto ciò accade soprattutto nelle operose officine del cinema come artigianato, come craft, nel laboratorio babelico di Cinecittà insomma.
Se allora è vero che la vita è la sua forma, il racconto delle immagini presentato nel volume è la rappresentazione di un paese ebbro di emergenze, faticosamente alla ricerca di una tradizione. Un paese che tuttavia, continua ad apparire (e scomparire), sullo schermo. Come un’ombra.
Recensione di Filippo Polenchi.
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