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L'esordio di Maria Corti narratrice, nel 1962, è anche il dono del suo capolavoro: L'ora di tutti. Libro di guerra, di assalto, di assedio, di morte, di apocalissi, nella Otranto di fine Quattrocento. Un romanzo a più voci, di complessa coralità, dove lo scontro dei turchi con i cristiani, materia storica ed epica cruciale nella tradizione europea, si ripercuote addosso a noi brutalmente, oggi che viene simulato un analogo scontro di civiltà. L'interrogativo che si poneva un personaggio di sfondo dell'Ora di tutti risuona quasi sconcertante: "Io domando a che servono i turchi sulla terra. Me lo dite a che servono?". Nessuno risponde. Certo è la domanda più assurda e insieme più elementare in una età di conflitto. A che serve il nemico, l'altro? Se è diverso perché esiste? Arendt o Adorno offrirono commenti agghiaccianti a questa forma bruta di inquisizione sulla realtà, cui segue necessariamente una violenza sulla realtà.
Quel che è certo è che Corti non descrive lo scontro, pur sanguinoso ed estremo, con un linguaggio di espressionismo corporeo. È una modalità di sguardo femminile sull'atroce maschile della guerra? Comunque l'autrice rifuggiva da una prosa turgida della violenza; le era ben lontano, almeno stilisticamente, il canto salentino di un maschio neo-barocco come Vittorio Bodini, che scrisse versi quali: "Cade a pezzi a quest'ora sulle terre del Sud / un tramonto di bestia macellata. / L'aria è piena di sangue" ecc.; siamo nella seconda metà degli anni quaranta, dalla silloge La luna dei Borboni.
Nella Leggenda di domani, racconto finora inedito proprio degli anni 1945-1947, troviamo un'osservazione di quelle che rimangono conficcate nella mente del lettore: gli uomini guerrieri talora riflettono in una pausa di riposo sul "perpetuo avvicendarsi del destino di grandezza fra i popoli", ma poi, anzi, contemporaneamente, si preparano a una nuova giornata di battaglia per l'indomani, "perché gli uomini conclude la scrittrice fanno così, anche se sono speculativi". I maschi come filosofi e guerrieri, insomma, visti da un occhio femminile. Sembrerebbe una banalità, se non fosse che l'attività speculativa non è presentata come alternativa a quella bellica, ma si intuisce che l'una è sostanza dell'altra, l'una è identitaria quanto l'altra e da essa indissolubile. Gli uomini uccidono perché sono speculativi e viceversa.
Ma tuttavia questa Leggenda, pur se suoi piccoli lacerti confluiranno nel romanzo del 1962, non è una storia di violenza ma una vicenda intima, inversamente autobiografica, avendo al centro una giovane che percorre la sua vicenda di distacco dal Salento dei pescatori verso il Nord industriale, al seguito di un ingegnere giovane e pensoso. La Leggenda è fatta di un realismo trasognato, con un ricco dialogo colmo di sapienza arcaica ma signorilmente raziocinante, certo con una necessità di essere sempre indiscutibilmente profondo a ogni battuta, ma in una prosa di lirismo nobile che tende all'eterno. Si pensa al cantilenare etnico-metafisico di Conversazione in Sicilia dell'amato Vittorini, o forse a una linea di scrittura narrativa femminile che arriva a Elsa Morante, ma vorrei azzardare un altro nome, che risulta piuttosto estraneo al mondo di Corti: Grazia Deledda. Nella Leggenda pare di sentire un certo realismo stupefatto deleddiano rimpastato con i più moderni astratti furori, ma è suggerimento tutto da verificare e approfondire.
Roberto Gigliucci
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