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Che la leggenda del sacrificio di bambini cristiani per parte degli ebrei, il cui sangue sarebbe stato utilizzato per fini rituali, come l'impasto del pane pasquale, sia divenuta una componente rilevante nella costruzione e fortificazione del pregiudizio antisemita, dal medioevo in poi, è cosa abbondantemente risaputa. Ancora recentemente, intorno all'affaire Toaff, si è misurata, in una sorta di gioco di contrappunti, non solo la persistenza, ma anche l'attualità di tale credenza, non meno che la sua aderenza a un certo immaginario culturale. Per tale ragione, quindi, il baricentro della riflessione, più che continuare a indagare sui contenuti dell'"accusa del sangue", in sé ben noti, e ancora meno su una qualche presunta verosimiglianza, dovrebbe concentrarsi sui meccanismi di autoreiterazione del dispositivo ideologico e antropologico che sta alla sua radice. Ben sapendo che esso si è rivelato capace di resistere non solo alla prova dei fatti, ma anche, e soprattutto, a quella del tempo. È quanto fa Caliò, storico e ricercatore presso l'Università Tor Vergata di Roma, il quale, in un denso studio su La leggenda dell'ebreo assassino, va affiancandosi alle fertili riflessioni già da tempo offerteci da Furio Jesi, da Ruggero Taradel e da altri ancora. Caliò affronta il problema rovesciando i presupposti con i quali lo si è da sempre affrontato. A tale riguardo si sofferma quindi sullo sviluppo degli aspetti agiografici, devozionali e, più in generale, sul martirologio dedicato alle presunte vittime delle "turpitudini giudaiche" Poiché la vera ratio della mistificazione deve essere cercata negli usi che certi ambienti cristiani hanno fatto, dal XII secolo in poi, del fantasma dell'infanticido rituale per consolidare il proprio ruolo sociale, ne è derivato un libro attento e informato, lontano dagli strilli gratuiti di pubblicazioni a esso coeve.
Claudio Vercelli
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