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recensione di Guagnini, E., L'Indice 1989, n.10
Molti e anche autorevoli studi recenti ci avvertono periodicamente dei problemi e delle difficoltà di scrivere una storia della letteratura italiana. Accanto alle questioni giustamente segnalate con maggior frequenza (spazio e tempo, geografia e storia, varietà regionali e tradizioni diversificate, stratificazioni culturali e linguistiche ecc.), ci sarebbe una piccola appendice: costituita da quegli autori che - nati all'estero, ma formatisi in Italia come scrittori - entrano nel quadro con un carico di esperienze storiche e culturali diverse per affermarsi come scrittori italiani. E non solo per il fatto di scrivere in italiano e di pubblicare i loro libri in collane di editori italiani.
In questa appendice, un paragrafo di tutto rilievo dovrebbe essere senz'altro riservato ai fratelli Pressburger: due gemelli nati a Budapest nel 1937 da famiglia ebrea, rifugiatisi in Italia nel 1956 e qui divenuti noti in campi diversi: Nicola come giornalista, Giorgio come regista teatrale e televisivo. I due primi libri ("Storie dell'Ottavo distretto", 1986; "L'elefante verde", 1988) portano la firma di ambedue. Per Nicola si tratta di opere postume, in quanto era scomparso nel 1985. Il terzo libro, "La legge degli spazi bianchi", uscito da poco presso la stessa casa editrice, porta la sola firma di Giorgio. Altro problema per lo storico: perché - se i tre libri presentano analogie - bisogna anche segnalarne le diversità.
I tre libri presentano almeno due elementi in comune. In primo luogo, il contesto d'ambientazione: l'Ottavo Distretto di Budapest, il quartiere abitato soprattutto da ebrei: dunque, la patria d'origine dei Pressburger, senza deroghe. In secondo luogo, l'organicità d'impianto (e ciò vale non solo per il secondo libro, un romanzo, ma anche per il primo e il terzo che sono raccolte di racconti).
Analogie di diverso genere potrebbero essere riscontrate a confronto con la tradizione della narrativa ebraica, per esempio con l'organicità ciclica degli "Ebrei" di Saba, o con il carattere umoristico-melanconico, ironico o autoironico di un Babel o di uno Zangwill, soprattutto nelle due prime opere dei Pressburger che esplorano con affetto pari alla lucidità critica le vicende del mondo minuto del quartiere: nelle sue affermazioni vitali e di fronte alle tragedie storiche, nella sua resistenza e nel patimento di oppressioni di vario genere, in momenti diversi agli inizi del secolo, dalla fine dell'Impero, ai progrom, alle violenze antisemitiche, ai campi di sterminio, alla compressione delle attività economiche del periodo staliniano, ai fatti del '56, all'emigrazione di molti ebrei verso altri paesi europei e in America.
Ereditando diversi scenari e, in qualche caso, anche personaggi dei due libri precedenti, "La legge degli spazi bianchi" punta ora anche ad angolature diverse di discorso. I cinque racconti che formano il volume vengono presentati dall'autore con l'apparenza di altrettanti riassunti di storie di medici alle prese con vicende "misteriose", supposte sintesi di un più ampio dossier consegnato all'autore da uno storico alle prese con interessi molto specifici: per la professione sanitaria che pone i medici di fronte a "segreti più grandi di loro"; per l'universo della malattia che spesso appare dominato da misteriosi rapporti tra il destino e le vicende biologiche e fisiologiche. Una problematica, questa, che Giorgio Pressburger percorre con un'attenzione umana e con una curiosità che non è mai scientifica e filosofica in senso tecnico: dove - invece - conta l'esplorazione di un universo enigmatico cui non è estraneo il coinvolgimento autobiografico.
Gli elementi, i casi e gli sviluppi tematici dei cinque racconti sono i seguenti. La progressiva perdita di memoria da parte di un medico, e la resistenza a questa perdita, fino all'ultimo ("La legge degli spazi bianchi"); il medico filantropo che diventa alcolista perché non regge di fronte alle grandi domande che la professione gli pone, in particolare di fronte alla totale "incertezza circa il senso di tutto" ("Orologio biologico"); l'attaccamento del dottor Friedmann, medico (di origine ungherese) di una missione sanitaria americana, per una bambina dallo sviluppo interrotto in seguito a varie operazioni al cervello, e per la madre: un affetto - misto di sensi di colpa, attaccamento umano e curiosità scientifica ed esistenziale - che porta Friedmann a lasciare la famiglia e i propri doveri di militare e a lasciarsi coinvolgere in una situazione ambigua e torbida ("Vera"); il caso di tre fratelli, colpiti da manifestazioni patologiche apparentemente analoghe allo stesso arto (espressione quasi simbolica di un amore che esige, anche agli occhi della vecchia madre, lo stesso sacrificio: "Il morbo di Bahdy"); il tumore di un vecchio ex-tipografo che avanza, regredisce, riprende il suo corso, in relazione allo stato psichico e al rapporto affettivo con il figlio emigrato, e la resistenza fisiologica della vecchia moglie che vigila la memoria del marito e il destino del figlio ("Scelte").
Il titolo del libro, "La legge degli spazi bianchi", è suggerito da una sorta di aforisma pronunciato dal protagonista del primo racconto: "Tutto è scritto negli spazi bianchi tra una lettera e l'altra. Il resto non conta". Gli spazi bianchi sono l'assenza, la perdita, ma anche, evidentemente, il tessuto connettivo, il senso inespresso di una realtà che sfugge alla logica, alla comprensione, forse le decisioni che si prendono in quel Quarto Palazzo di cui parla un libro dello Zohar (il "più temuto dei libri cabbalistici", citato a lungo anche nell'ultimo racconto delle "Storie dell'Ottavo Distretto").
L'universo esplorato da Giorgio Pressburger è soggetto a uno sguardo che oscilla tra il senso del mistero, l'imperscrutabilità del destino, e, da un altro lato, un'attenzione laica e disincantata, scientifica, alle regole biologiche cui sono soggetti i meccanismi corporei degli individui; dunque, un reticolato complesso in cui si intrecciano fili deterministici e volontà di resistenza e di scelta anch'esse oscuramente definibili.
E la storia? In questi racconti è sempre la stessa, con le sue tragedie e le sue pause illusorie ma anche con le sue speranze, sia pure precarie. Una presenza ambivalente, se si vuole: banco di prova dei destini individuali, ma anche semplice fondale su cui si muovono personaggi sollecitati da sentimenti complessi, spinte esistenziali, ragioni biologiche: campo di enigmatiche coincidenze, appuntamenti e combinazioni, simmetriche oppure sfalsate e inopportune, di un destino coordinato "altrove". Uno scenario, anche, dove agiscono personaggi talvolta tesi a trovare il senso riposto della vita o a sciogliere (come il dottor Friedmann) un "antico dubbio circa la bontà dell'esistenza dell'uomo sulla terra", al centro di grovigli (che attanagliano i medici) dove il dovere, la deontologia, la passione, i sensi di colpa individuale o di natura più ampia, i sentimenti, sembrano altrettanti fili inestricabili.
In questo universo, la malattia appare come elemento centrale, reale e simbolico, per capire (o almeno per porre le domande essenziali circa) il senso dell'esistenza: modo per esprimere - anche con il silenzio - interrogativi essenziali su se stessi; metafora di condizioni potenziali e inespresse dentro l'uomo, come il sogno.
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