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recensione di Campetti, L., L'Indice 1994, n. 7
Liberare il lavoro o liberarsi dal lavoro? 0, forse, liberare il lavoro dal profitto, come suggeriscono i testi classici del marxismo? Questa discussione ha appassionato a lungo la sinistra mondiale e le risposte, diverse e a volte opposte, hanno caratterizzato a seconda delle fasi storiche, dello sviluppo dei modi di produzione e delle latitudini, culture politiche differenti: etica o rifiuto del lavoro, subalternità o opposizione, magari luddistica, alle nuove tecnologie, non sono che le voci estreme di una ricerca, ora arativa ora sterile, sempre costretta a misurarsi con i mutamenti della realtà lavorativa e delle sensibilità dei soggetti.
A che punto siamo, oggi? Due sono le novità "epocali" che impongono un aggiornamento dell'analisi. Cominciamo dallo sviluppo delle nuove tecnologie, dalla robotica e soprattutto dall'informatica che hanno rivoluzionato il modo di lavorare, rendendo prima obsoleto e poi negando il principio su cui è cresciuto il movimento operaio internazionale: l'aumento della produzione traina automaticamente l'aumento delle forze produttive. Non è più vero da tempo. La quantità di lavoro necessaria per unità di prodotto è in progressiva, irrefrenabile diminuzione.
La seconda rivoluzione consiste nel venire a maturazione del conflitto che oppone il nord al sud del mondo. Lo schema di fondo su cui si basava e si basa l'economia di rapina del primo nei confronti del secondo è saltato in aria: le sorti dello sviluppo capitalistico sono al capolinea, n‚ magnifiche n‚ progressive ma seriamente compromesse. Il modello occidentale non soltanto non è estendibile ai paesi che un tempo si chiamavano eufemisticamente in via di sviluppo e oggi soffrono di un crescente impoverimento, ma neppure è difendibile nei punti alti del capitalismo, dove la crisi occupazionale e la conseguente caduta dei redditi determina la crisi dei consumi di massa. Il modello è in crisi perché lo sviluppo quantitativo è sempre meno ecocompatibile, perché le risorse naturali non sono, ahinoi, inesauribili.
È in questo contesto che la questione del lavoro si pone in termini del tutto nuovi. La redistribuzione del lavoro esistente è un imperativo, non soltanto per la sinistra europea e mondiale. Se il nuovo sistema produttivo "mangia" il lavoro umano perché opporvisi? Perché non pensare invece a una differente organizzazione sociale, in cui il tempo liberato da quel lavoro possa essere diversamente, e meglio, utilizzato? La provocazione posta da Guy Aznar non è quella delle 35 ore settimanali, obiettivo importante che non risponde all'ordine dei problemi, ma presuppone una riduzione drastica del tempo lavorato nell'industria. Una parte del tempo liberato potrebbe essere occupato in lavori nei servizi regolarmente retribuiti con un secondo assegno integrativo e un'altra parte potrebbe essere dedicata alla creatività individuale e cooperativa. Aznar parte dal concetto che il primo lavoro, quello sotto padrone per intenderci, non può che ridursi: opporsi a questo trend sarebbe miope perché il sistema della competitività internazionale non lo consente. Il percorso suggerito esclude il reddito d'esistenza, un assegno assicurato a tutti che produrrebbe effetti sociali devastanti, consegnando il destino dei lavoratori salariati nelle mani dei datori di lavoro, fuori da qualsivoglia tutela e garanzia. In Italia le proposte di Aznar, in molti punti simili all'elaborazione di André Gorz, hanno suscitato vivo interesse e "Lavorare meno per lavorare tutti" è stato discusso nelle principali Camere del lavoro. Da Milano viene una proposta alla sinistra europea: insieme ad Aznar, dirigenti della Cgil e della Ig Metal tedesca, sociologhi di molte università italiane, francesi, spagnole e tedesche ricercatori e amministratori lanciano una provocazione che ha al centro la riduzione su base continentale dell'orario di lavoro. Non ci sono miracoli - si legge nell'appello - ma obiettivi da raggiungere: il primo è quello di ricondurre la ricchezza della produzione sociale a finalità governate dagli esseri umani e non a loro estranee". Il dibattito è aperto. A Torino da un paio d'anni un gruppo di intellettuali (si consiglia la lettura nell'ultimo numero di "Nuvole" dell'intervista di Marco Revelli a Fulvio Perini) e un'organizzazione di lavoratori si cimentano su un progetto sociale teso a ricomporre la complessità dei soggetti in una sfera non più ruotante esclusivamente nell'orizzonte della fabbrica.
Il cerchio si potrebbe chiudere assumendo la terza delle risposte possibili alla domanda iniziale sul lavoro: liberarlo dal profitto, dalla logica puramente produttivistica, tanto più che la crisi capitalistica non consente più aggiustamenti e risposte parziali. Ma qualche dubbio rimane. Per esempio: come si concilia la strategia a medio termine proposta da Aznar con la difesa immediata dei posti di lavoro (le 35 ore settimanali)? Non pretendiamo certo da Aznar, o da Gorz, una risposta definitiva. Servono sperimentazioni ed elaborazioni che coinvolgano i soggetti e rilancino la ricerca comune di lavoratori, intellettuali, amministratori, politici. Un ultimo dubbio: ci fu in Italia una stagione felice in cui qualcuno provò a spiegare che non è l'uomo a doversi adattare alla macchina, ma la macchina all'uomo. Ora, se il lavoro nell'industria capitalistica deve assumere la competitività internazionale come vincolo assoluto, che ne sarà di quel grande sogno? Facciamo un esempio: nella prima metà degli anni settanta a Mirafiori gli operai di una linea di montaggio motori imposero al capo officina di far lavorare alla catena una ragazza bassina, che non ci arrivava. Costruirono un banchettino e l'operaia e i suoi compagni vinsero la battaglia contro l'ideologia del macchinismo. Ma oggi per restare competitiva una fabbrica di automobili deve ridurre costi e lavoro vivo come fanno tutti i concorrenti. Morale, meno donne nella fabbrica integrata e quelle poche che restano, costrette al lavoro di notte come gli uomini, via gli invalidi, a casa gli inidonei, in prepensionamento gli anziani. Fa un po' paura questa nuova fabbrica. Se la modernità deve ripartire dal darwinismo sociale, vai davvero la pena essere moderni?
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