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Solo Paul Weller poteva celebrare un anniversario con uno dei suoi dischi migliori. L’uomo che ha identificato l’estetica Mod non solo nello stile e nell’immagine (sempre impeccabile anche a 59 anni), ma anche nel pensiero musicale interpretando in modo coerente la filosofia “moving and learning” si ritrova nel 2017 con la ricorrenza importante dei 40 anni dell’album che lo ha lanciato almeno due incarnazioni fa, In the City dei The Jam (uscito nel maggio del 1977) e una consolidata carriera da solista molto poco propenso all’autocelebrazione, come ha dimostrato nel 2015 con l’album quasi prog-rock Saturns Pattern.
Quindi cosa ha fatto? Un album che è una raccolta di classici moderni e suona come il nuovo manifesto di una sottocultura inesorabilmente devota alla reinvenzione di se stessa. La “rivoluzione gentile” di cui parla Weller nel titolo di questo suo 13esimo album solista (ma contandoli tutti sono 25, quasi uno ogni due anni) è semplicemente il ritorno della qualità di scrittura ed esecuzione di tutti i generi musicali che hanno creato il nostro immaginario: rock, R&B, soul, funk, folk.
Tutto fatto in modo naturale, semplice, ma non inconsapevole, senza mai girarsi indietro a riguardare il proprio passato e con l’aggiunta (oltre allo spettacolare duo batteria-tastiera che lo accompagna da anni) di una serie di ospiti sparsi nell’album, come richiami invisibili a influenze che risalgono a decenni diversi, dalle voci soul Madeline Bell e PP Arnold a Boy George, che canta in One Tear fino a Robert Wyatt che suona la tromba in She Moves with the Fair.
E poi c’è lui, con le sue ballad struggenti (Long Long Road), la chitarra blues di Satellite Kid, il funky di New York, quell’atteggiamento che non ammette repliche e il suo essere un punto di incontro immaginario tra David Bowie, Eric Clapton e Noel Gallagher.
La classe di Paul Weller è un regalo alla musica di oggi e il suo modo di rendere attuale il pensiero Mod è la migliore idea di futuro che si possa immaginare per il rock.
Recensione di Michele Primi
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