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Anno edizione: 2019
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Letto dopo la biografia di Freud della stessa autrice la quale, pur confermando la sua fascinosa capacità di immergere con profonda sicurezza il personaggio nei suoi rapporti familiari e soprattutto nel suo ambiente culturale, lascia qui trasparire forse troppo alcune sue idee personali. Ella lo conobbe realmente (prima ancora, fu sua madre a conoscerlo), ne seguì i corsi per anni, e quindi ne ha un’idea molto precisa, come uomo, docente e psicoanalista. Siamo di fronte a una vera biografia, un lavoro in cui l’autore si sforzi di esporre il suo punto di vista nel modo il più possibile neutrale dopo aver esaminato tutte le fonti, o a una ricostruzione che sotto il velo della storicità forse nasconde fini, forse anche non pienamente consapevoli, diversi? La seconda possibilità si avverte soprattutto nell'evidente disparità di giudizio che l’a. manifesta tra la prima parte della vita di Lacan (sino agli “Écrits”), quasi esclusivamente encomiastica, e la seconda (soprattutto l’ultimo decennio), in cui R. finisce col ridurre l’appena descritto genio quasi a una marionetta, tralasciando così inspiegabilmente tutta la fase finale del suo insegnamento. Il punto dolente è l'eredità (scientifica) di Lacan, della quale fu espressamente investito il genero Jacques-Alain Miller che tuttora cura la pubblicazione dei suoi celebri Seminari (che egli non scrisse mai): ma davvero - si chiede l’a. - Lacan ha voluto questo? E poi: Miller sta davvero svolgendo questo lavoro come Lacan avrebbe voluto, o ha finito col sostituirsi a lui trascrivendo non il Seminario, ma una sua interpretazione della lezione orale del Maestro? Lotte furibonde su questi punti si sono effettivamente svolte tra varie correnti e associazioni psicoanalitiche, che a diverso titolo si richiamano all’insegnamento “autentico” di Lacan: prender parte per una di esse in una biografia, e soprattutto senza neanche dichiararlo apertamente, inficia la qualità storica del lavoro, comunque molto interessante e godibile.
Jacques Lacan L'eretico della psiche (GAZZETTA DI PARMA, 11 gennaio 1996) Con l’invenzione della psicanalisi, Freud intendeva dare avvio a una ricerca differente dalla nosologia psichiatrica, dalla sistematica filosofica e dalle ipotesi antropologiche in voga all’inizio del secolo in Europa. Neurologo senza vocazione, egli dedica la sua vita alla psicanalisi non come nuova branca scientifica o umanistica ma come vera e propria missione. Il cammino è difficilissimo e le acquisizioni, parziali e indefinite ciascuna volta, sono pretesto per altre ricerche, per il proseguimento dell’analisi, per la disposizione costante all’ascolto e alla scrittura. Freud scrive molto, racconta i suoi casi, riflette e elabora il triplice aspetto di una prima e di una seconda topica dell’inconscio come indici di un’impossibile unificazione e universalizzazione della teoria e della pratica psicanalitiche. Ma, dopo di lui, mezzo secolo di freudismo e associazionismo psicanalitico, sotto l’egida del ligittimismo, ha ripensato la psicanalisi come una disciplina umanistico-scientifica o come una corrente di pensiero filosofico ben accetta dal marxismo e dal leninismo, privandola cioè di quell’interesse originario da cui aveva preso avvio in quanto istanza internazionale e intersettoriale, lontana dai concetti di malattia e di guarigione. Questo il destino della psicanalisi in Europa e in America dopo la morte di Freud. In Francia non ebbe destino differente: la psicanalisi alla francese si è adattata alla filosofia cartesiana, senza nessuna innovazione né nella pratica né nella teoria. Il ramo francese della International Psychoanalytical Association (IPA), capeggiato da Marie Bonaparte, raccoglieva per la maggior parte psicanalisti di passaggio, diretti in America, "tecnici" di una psicanalisi a torto chiamata freudiana, che risentiva di un tecnicismo delle regole riadattato da Ernest Jones, presidente dell’IPA all’epoca della morte di Freud e assunto come legittimo erede della teoria freudiana nonostante qualche contribut
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