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Fu tra il 1503 e il 1507 che il bolognese Ludovico de Vartema compì il suo viaggio in Oriente, un viaggio animato esclusivamente dal desiderio di «vedere e sapere più cose». Non era un mercante, né un ambasciatore, né un pellegrino, né un missionario: era solamente un uomo curioso che aveva scelto di fare esperienza e di indagare meglio «qualche particella de questo nostro terreno giro». Al ritorno volle portare la sua testimonianza all’Europa: abile intrattenitore, condivise nuove conoscenze e procurò diletto a chi lo ascoltò, mentre poté godere della gloria e della fama ottenute grazie all’impresa compiuta. Prese così forma l’Itinerario, un resoconto dalla struttura “a fisarmonica”, che si dilata quando l’autore pone al centro della descrizione l’Oriente in parte o del tutto sconosciuto agli Occidentali: Medina, La Mecca, Gedda, ma soprattutto l’interno dello Yemen e le località indiane nelle quali i Portoghesi, intenti a fondare un impero di porti e di rotte marittime con obiettivi esclusivamente economici, non si erano ancora stabiliti. Pubblicato nel 1510 a Roma, l’Itinerario, che ebbe una straordinaria fortuna editoriale in tutta l’Europa, era destinato a non avere eguali: era la testimonianza unica di un preciso momento storico, lasciata da una personalità fuori dal comune. Dalle pagine della relazione emerge vivido un mondo sconosciuto, ritratto in tutte le peculiarità dei singoli luoghi: caratteristiche dei territori, forme di governo, vite dei sovrani, usi, costumi, religioni, pratiche commerciali, armi, mezzi di trasporto, animali, piante, spezie. Vartema, abile scrittore, non fece mancare nulla alla sua opera: ricchezza documentaria, oggettività, stile piacevole, avvincente narrazione, regolarità linguistica. Il Ludovico narratore, che sa come affascinare il suo pubblico, invita al diletto che la lettura dell’Itinerario, iucundo cibo del Cinquecento e dei giorni nostri, procura ai lettori.
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