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L' Italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988)
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1 gennaio 1997
9788806593186

Voce della critica


recensione di Mazzonis, F., L'Indice 1989, n. 8

Dall'immagine editoriale, dal titolo e sottotitolo, e poi per esplicita ammissione dell'autore, l'ultimo libro di Lanaro si presenta con i caratteri di un'"agile opera di sintesi". Chi si aspettasse però un'opera di sintesi storica così come comunemente la si intende resterebbe deluso. Né potrebbe essere diversamente: la stagione delle sintesi storiografiche inaugurata autorevolmente dalle lezioni parigine di Chabod (e per altro verso dal contemporaneo lavoro così irriverente e polemico di Fabio Cusin) era stata irrimediabilmente chiusa (alla grande, vorrei aggiungere) da Carocci. Una fine che è pure il sintomo non tanto di scelte o di carenze soggettive, ma di una sorta di decisione oggettiva collettiva, in quanto, apparentemente almeno, via via assunta o accettata da tutti: le discipline storiche, e quella contemporaneistica sopra tutte, non paiono più in grado di offrire la chiave interpretativa per comprendere il presente, addirittura per cercare di intendere come ci si sia arrivati. Alle visioni generali e unitarie si è preferito quel modello di analisi e riflessione che è venuto realizzandosi con la einaudiana "Storia d'Italia". D'altro canto assai raramente i risultati delle ricerche e degli studi hanno trovato un punto d'incontro comune, e altrettanto raramente sono arrivati a cogliere il presente. Di necessità virtù, si è diffusa vieppiù l'abitudine di richiedere lumi a quelle che gli storici di una volta consideravano con sussiego le "scienze ausiliarie" della storia; ma anche qui, il più delle volte, è riuscito difficile far convergere i fasci di luce sul percorso storico e inevitabilmente, là dove ci sarebbe stato maggior bisogno di chiarezza, il buio è rimasto fondo.
È da queste considerazioni che bisogna partire per comprendere l'originalità e l'atipicità della 'sintesi' di Lanaro: egli non ha inteso darci una visione unitaria, ordinata lungo un percorso cronologico, di determinati problemi o avvenimenti (benché, a ben guardare, ci sia anche questo), ma si è prefisso di cercare e raccogliere i risultati della ricerca storica e delle altre scienze sociali; li ha quindi confrontati e approfonditi facendo interagire, in modo spesso originale, le metodologie di approccio e gli esiti interpretativi, cercando di presentarcene la dimensione problematica, non esitando a ricorrere, se il caso, a stimolanti provocazioni.
Ciò premesso, proveremo a riassumere il contenuto del lavoro, anche se, come si sarà già compreso, è impresa tutt'altro che facile. Che l'obbiettivo dell'autore - benché egli metta le mani avanti dichiarando che "un discorso sull'oggi esula comunque dagli scopi di queste pagine" (p. 223) - sia quello di accogliere la sfida lanciata da Goffredo Fofi quando, "corrosivo come d'abitudine", denunciava la mancanza di opere "che permettano di orientarsi, che spieghino davvero, magari provocatoriamente, ciò che siamo e come lo siamo diventati" (p. 221), mi pare più che evidente: e chiaro fin dall'inizio, quando, in apertura del primo capitolo della prima parte, vengono sottoposti all'attenzione del lettore dati e cifre relativi alla ormai conseguita e conclamata 'modernità' dell'Italia, che ne fanno il quinto (il quarto? il sesto?) paese industriale, assieme agli attestati internazionali che affermano che "subito dopo la Danimarca l'Italia del 1986 è il paese del mondo a migliore 'qualità di vita' " (pp. 5-6). Contemporaneamente vengono allineati dati e cifre che denunciano i nefasti dello "sviluppo distorto" e le caratteristiche di un livello culturale nazionale "vicino alle medie del Terzo Mondo".
Potrebbe essere l'inizio di un 'pamphlet' di denuncia. Ma, sebbene conservi non poche delle caratteristiche e delle qualità del polemista, Lanaro è uno storico, o meglio uno studioso di scienze sociali con una spiccata e personalissima propensione per la dimensione storica, dalle molte e variegate letture e i cui punti di riferimento sempre meno sono individuabili nella tradizione storiografica e culturale nostrana, sì piuttosto, e soprattutto, in quella d'oltralpe (in ogni modo, per le sue coordinate metodologiche e interpretative, cfr. i parr. 2, 3 e 4 del Cap. I, parte I); pertanto egli sa bene che la responsabilità attinente al proprio ruolo consiste nell'indagare il fluire dei processi sociali per coglierne i meccanismi che li determinano.
Le contraddizioni dell'oggi, da cui il suo discorso muove, gli appaiono come l'effetto immediato e inevitabile di una sorta di dualismo diffuso che investe tutti i campi (economico, culturale, religioso), separa i ceti e ne approfondisce le distanze, impedisce il contatto tra rappresentanti e rappresentati e trova la sua più compiuta espressione nell'assenza di un 'centro' degno di questo nome e della sua funzione: non lo è mai stata Roma, capitale politica, non lo è mai stata Milano, capitale morale (pp. 75-81). Ma il dualismo, al pari delle contraddizioni, rappresenta solo un sintomo del disagio: non ne costituisce affatto la causa. A Lanaro, però, la questione della ricerca della causa o delle cause non interessa come problema di metodo (la ben nota interpretazione gramsciana relativa alla carenza di capacità egemonica dei gruppi dominanti, pur incombente sullo sfondo di tutto il discorso, non viene mai espressamente presa in considerazione; e Gramsci è citato quale interprete di Ibsen e Nietzsche, pp. 181-3): il suo intento, l'ho già accennato, non è di trovare la formula esplicativa e risolutrice, bensì di comprendere i meccanismi di svolgimento e di (auto) regolamentazione di un processo così contraddittorio; e per farlo indirizza l'indagine su alcuni "caratteri di lunga durata" che, a suo avviso, accompagnano la lunga e ossessiva rincorsa italiana verso la 'modernità': sono due e sostanzialmente correlati fra loro.
Il primo è l'idea profondamente radicata nelle classi dirigenti, e fatta propria dai loro rappresentanti politici e intellettuali, che la modernità si riduca esclusivamente allo sviluppo economico (leggi: industrializzazione); una convinzione diffusa al punto che chi non si dichiara d'accordo viene azzittito "con una cortesia fra subacquea e remissiva" (p. 99). La concezione dello stato sottesa a questa idea ha comportato conseguenze negative tanto sul piano economico (alle origini, cioè , del famoso sviluppo distorto: cfr. pp. 100-1-; e le esemplificazioni che seguono mi paiono quanto mai calzanti), quanto, cosa assai più grave, sul piano politico-istituzionale (quella "delegittimazione dello Stato'" già denunziata da Aristide Gabelli: cfr. p. 70). Da questa "sostanziale rinuncia all'affermazione dello Stato come agente principale di organizzazione della società" (p. 111) - di cui, in età liberale, sono stati espressione il trasformismo e il parlamentarismo (pp. 106-111) e a cui hanno cercato per quanto potevano di supplire sia il riformismo socialista e quello cattolico popolare delle origini, sia il riformismo del "partito nuovo" di Togliatti (cfr. rispettivamente, pp. 111-3, 113 e 113-7) - deriva il secondo "carattere di lunga durata" della storia italiana post-unitaria: la "democratizzazione amputata della nazionalizzazione", ossia l'irrisolta questione della nostra "identità nazionale" e, insieme, della "identificazione" degli italiani 'uti singoli' e in quanto parte di una realtà sociale. Sfruttando abilmente la funzione unificatrice esercitata dalla Grande Guerra il fascismo degli esordi diede vita all'unico organico "tentativo di ricongiungere democratizzazione e nazionalizzazione" (pp. 118-9). Ma i limiti intrinseci del regime tanto sul piano ideologico, quanto sul piano istituzionale fecero sì che esso fallisse "proprio nei suoi obiettivi più ambiziosi [...] mentre funziona[va] appieno come veicolo di occupazione dello Stato e di politicizzazione degli impieghi pubblici" (p. 126). Della fase storica aperta dal secondo dopoguerra fu protagonista la Dc, portatrice in "questo percorso declive" di "un universalismo topologico e prossemico" largamente debitore alla concezione cattolica della società tradizionalmente sancita dalla chiesa e, pertanto (cfr. in proposito pp. 129-139), assai poco suscettibile nei confronti delle problematiche della identità nazionale e di una concezione non economicistica della modernità.
Forse sensibile al richiamo musiliano ("ogni cosa oggettiva è solo l'attuazione delle sue infinite potenzialità e perciò viene osservata da diversi lati") nella seconda parte del suo lavoro ("L'identità") Lanaro ripropone il discorso finora svolto nella prima parte ("Lo sviluppo"), frantumandolo però in un serie di analisi condotte sul campo, quasi per verificarlo nel concreto suo esemplificarsi storico. Si tratta per lo più di temi che la storiografia ha tenuto in non cale o ha considerato scarsamente influenti, ma che invece l'autore ha sovente prediletto in precedenti occasioni (anche per quanto riguarda il periodo storico: gli anni che vanno dal '70 al primo dopoguerra qui fanno la parte del leone): sono le tematiche culturali, nell'accezione più vasta dell'aggettivo (valgano a mo' d'esempio le pp. 143-l51 relative alla funzione che non hanno svolto monumenti patri e monarchia rispetto alla nazionalizzazione delle masse), ovvero quelle più direttamente collegate alla gestione della politica ('avant et après': cfr. sempre a titolo esemplificativo le pp. 152-6 dedicate all'ideologia e all'oratoria crispina). Il filo conduttore che guida l'autore fra tante suggestioni e l'aiuta a non smarrirsi è costituito dal rapporto-confronto con le altre realtà avanzate; non tanto, si badi, da un punto di vista oggettivo, ossia la 'vexata quaestio' del paese 'later comer', bensì soggettivo, ossia la questione vista e vissuta da parte italiana (per dirla con Lanaro: "la smania di omologazione con i grandi paesi del pianeta", p. 210): in definitiva, un ulteriore modo di presentarsi e rappresentare il problema della modernità.
Quali siano, in sintesi, gli effetti che da queste riflessioni si riverberano sull'altro dei "caratteri di lunga durata" della storia italiana è possibile cogliere in tre successive conclusioni, delle quali l'ultima, integra e definisce le prime due: "il tradizionalismo italiano [...] è nostalgia e ricupero di qualche singola tessera di un mosaico che non può essere restaurato integralmente, e sintesi proiettata verso il futuro di queste singole tessere e dei depositi di un passato soprattutto altrui" (p.217).E mi pare significativo che questa seconda parte si chiuda sull'analisi dell'ideologia nazionalista di Rocco (per Lanaro è stato, in definitiva, il solo nazionalismo), caratterizata dall'abbandono della tradizione laico-risorgimentale a vantaggio dell'abbraccio-fusione con l'ideologia cattolica (pp. 217-220).
In quella che considero come una vera terza parte del libro (cfr. il cap. "Senza più patria?", pp. 221-247), l'analisi portata avanti secondo un ordine cronologico riprende là dove il discorso, alla fine della prima parte, si era interrotto: si apre sugli anni del boom, a partire dai quali, al di là dei limiti propri del fenomeno, e a parte effetti collaterali non di rado sconvolgenti, si può finalmente parlare di unità nazionale sul piano delle strutture e della cultura; e si chiude, dopo aver rapidamente passato in rassegna la seconda metà degli anni settanta, sul '68: non tanto analizzato in sé, ma visto come metafora "dell'aspirazione ad un 'civile' in sincronia con la smisurata potenzialità dell' 'economico' ". Insomma una conferma del perdurare di una contraddizione e, al tempo stesso, mi pare, una dichiarazione d'intenti.
Fin qui, schematicamente riassunto, il libro di Lanaro. Benché di godibilissima lettura, non si tratta di un testo facile n‚ comodo, fondamentalmente per la sua atipicità: innanzitutto per la struttura stessa del lavoro (lo si è già accennato) che, sotto l'apparente veste di una sintesi risolutiva, non risolve affatto i problemi, bensì li assembla, li scava e li ripropone in una nuova dimensione per richiamarvi ancora una volta l'attenzione critica; poi, per il materiale e la documentazione usati in supporto e a fondamento delle proprie osservazioni (le famose fonti) che quasi mai sono quelli tradizionalmente usati dalla storiografia, ma più spesso provengono da territori e settori considerati lontani (dalla letteratura d'evasione alla pubblicistica tecnica e sperimentale, dai dati quantitativi delle tabelle specialistiche ai risultati delle indagini di studiosi di altre discipline); e, infine, per la scrittura, pronta al paradosso e alla battuta (anche tagliente), costruita con forme e schemi che irridono quelli in uso presso l'accademia, disposta ad appropriarsi in maniera disinvolta e personale di un linguaggio ora desueto e prezioso (ma consentaneo all'argomento trattato), ora peculiare di altre discipline. Tutti caratteri, insomma, che richiedono al lettore capacità di concentrazione, prontezza di spirito di fronte ai mutamenti improvvisi, disponibilità agli stimoli e alle provocazioni intelligenti, propensione alla risposta pronta e puntuale a interrogativi smagati intenzionalmente proposti per disorientare. Malgrado ciò ('et propter hoc') è un libro importante; ne sono convinto; a patto però, che non lo si consideri un punto d'arrivo (una sintesi, appunto), bensì un'occasione per riaprire il dibattito, o meglio, per riprendere la riflessione su temi e problemi ormai dati per risolti o comunque accantonati: e, per rendersene conto, basta pensare ai due temi centrali intorno ai quali ruota e si arrovella il discorso di Lanaro (la "modernità" e l' "identità nazionale") . E volendo dare anch'io il mio (modesto) contributo all'auspicata ripresa, segnalerò qui appresso tre punti: uno di perplessità, uno di consenso e uno di dissenso.
La perplessità nasce dalla disinvoltura (non motivata, mi pare, questa volta: cfr: pp. 126-7 e, soprattutto, 223) con cui Lanaro risolve la Resistenza tutta entro la definizione di "guerra civile": non è che voglia elevare una protesta contro il reato di "lesa maestà"; è , invece, che il tono liquidatorio delle conclusioni e di certi giudizi "collaterali" (ad es.: l'assenza di ogni rapporto con il Risorgimento) e il contesto di riferimento in cui l'analisi è svolta, mi lasciano (a dir poco) perplesso.
Il consenso riguarda il modo intelligente con cui è stata affrontata la questione della presenza 'politica' (nel senso più ampio del termine, e quindi anche culturale e sociale) dei cattolici e della chiesa (cfr. soprattutto il cap. "In hoc signo vinces", pp. 127-140), arrivando alle conclusioni di cui si è già riferito in merito al rapporto con la "modernità"; il che non significa affatto affermare che la Dc sia stata il "partito dei padroni" o che la chiesa abbia svolto un ruolo subalterno agli interessi dei ceti dominanti: bensì, facendo emergere la sostanziale organicità della proposta politica e culturale cattolica al modello di 'modernità' (economicistica) che si viene realizzando in Italia (una organicità, a mio avviso, pienamente rispondente agli interessi storici propri della chiesa), è possibile superare tanto la tesi "cattolica" della "eterogenesi dei fini" (Scoppola), quanto quella "laica" della estraneità e ostilità rispetto allo sviluppo capitalistico (Galli della Loggia).
Infine il dissenso, tenuto per ultimo perché intendo soffermarmici brevemente: esso riguarda quelle pagine (cfr. pp. 38-43 e 183-4) in cui Lanaro traccia una sorta di identikit culturale e ideologico dell'industriale italiano in base al quale, a partire dall'ultimo trentennio dell'Ottocento, gli industriali paiono fortemente dominati da "complessi d'inferiorità nei riguardi dei blasoni" da una costante ricerca di 'anoblissement' che si riflette in tutti i loro comportamenti determinandoli in direzione di un pedissequo quanto patetico tentativo di imitazione dei modelli aristocratici di 'ancien régime'. Ora, se si escludono i comportamenti sociali più squisitamente esteriori, ossia quelli mondani per i quali, come osservava Schumpeter, era l'aristocrazia a dettare le regole - mentre la borghesia imponeva quelle per i comportamenti economici - se si esclude dunque l'etichetta, ho l'impressione (dato lo stato attuale degli studi, non mi sento di dire: sono convinto) che proprio nel mondo imprenditoriale, e proprio nel periodo a cavallo del secolo, sia dato rintracciare sul piano della ideologia e della morale le novità più significative, se non le uniche che riesca a esprimere una classe dirigente così poco omogenea e scarsamente connotata ideologicamente e moralmente quale quella post-unitaria. Se si riflette con attenzione non solo al modo di gestire l'azienda ma anche alle strategie matrimoniali e alla politica di investimenti immobiliari, si avvertono uno stile e una 'Weltanschauung' da cui emerge la coscienza (e l'orgoglio) di essere esponenti di una nuova classe dirigente, portatori di una nuova morale fondata sulla "operosità fattiva" e sulla "onestà e scrupolosità": virtù grazie alle quali il diritto di successione alla testa dell'azienda non era più sancito dal maggiorascato bensì dalla "attività e capacità" di quello tra gli eredi che ne avesse dato maggior prova.
Altri aspetti del discorso di Lanaro in proposito non mi convincono: Cosi "l'idea della fabbrica come opera d'arte" non nasce tanto, a mio avviso, "dal desiderio di addobbare ciò che altrimenti è sgraziato [...] e quasi deve scusarsi di esistere", bensì dall'avvertita esigenza di dare un'immagine consona al ruolo importante che la fabbrica è chiamata ad assumere nella società a venire; e ancora, i villaggi operai costruiti attorno alle fabbriche e le altre forme di "elargizione extra-contrattuale agli operai" (che Lanaro giudica "una variante del 'bonum facere' di antico regime") nascono non solo da innegabili preoccupazioni per l'ordine sociale ma anche dalla convinzione che al pari di ogni esponente di classe egemone che si rispetti (cioè , che avverta la responsabilità del proprio ruolo sociale), il boom industriale debba farsi carico del benessere e della sicurezza delle classi subalterne (e che poi tale convinzione fosse costretta nei limiti che ben sappiamo, è un altro discorso), e mi pare significativo, infine, che là dove vi fu nobilitazione, la concessione sovrana, per lo più, non fu vissuta come un orpello di cui menare vanto, ma fu accettata come il riconoscimento di uno status conseguito grazie alle proprie capacità e alla propria onestà. Tutto ciò non rimase del tutto privo di conseguenze sul piano politico, se è vero (come emergerebbe dai primi risultati di una ricerca tuttora in corso di Stefano Angeli) che morto Umberto I e imperante il riformismo industrialista di Giolitti, prese piede e consistenza il tentativo di dar vita a un "partito degli industriali"; un tentativo vanificato, in seguito alla crisi economica del 1907-13 e durante e dopo la guerra, per la scelta operata da settori crescenti del mondo industriale a favore del nazionalismo prima, e del fascismo poi.
Fu proprio durante il ventennio, quando più rassicurante era l'abbraccio protettivo del regime e più gratificante quello che Lanaro chiama "il 'trompe-l'oeil' della 'modernità'", che gli atteggiamenti culturali e ideologici prima richiamati si vennero modificando nel senso indicato da Lanaro: la ricerca (e il conseguimento) di un blasone da parte di alcuni tra gli esponenti più autorevoli e prestigiosi del mando imprenditoriale (dai Rossi di 'Schio' ai Volpi di 'Misurata') ne rappresenta una spia. Indagare e riflettere sul perché e come ciò avvenga proprio quando gli industriali dovrebbero sentirsi più 'sicuri', è questione che allungherebbe di troppo il mio già lungo discorso.

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