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Recensioni L' Italia degli altri

L' Italia degli altri di Mario Fortunato
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In Etichette, apparso per la prima volta nel 1930, Evelyn Waugh delinea, tra il serio e il faceto, una sorta di casistica del viaggiatore nordeuropeo che, nel corso dei secoli, si è avventurato dalle nostre parti. Si comincia col superstite del Grand Tour: un giovanotto bennato e facoltoso, come Goethe, Alexis de Tocqueville e Stendhal, che sfida sempre qualcuno a duello, ha parecchie avventure erotiche e alla fine torna a casa, pronto per incarichi legislativi. Si passa poi al viaggiatore borghese, che dà avvio all’orrendo traffico di chincaglierie e oggetti dozzinali da portare a casa come souvenir e trova piú economico e conveniente vivere all’estero. E si finisce col viaggiatore novecentesco, che parla con la povera gente nelle osterie lungo la via e vede nella diversità dei tipi la struttura e l’unità dell’Impero romano. Viaggiatori diversi, ma tutti con la medesima convinzione di trovarsi in un paese dalla smodata quantità di bellezza, cosí eccessiva e straripante da sperperarsi e perdersi. La parola «bellezza» è il leitmotiv di tutti i Grand Tour che, dalla fine del Settecento, hanno esplorato, interpretato, e in definitiva creato, l’identità italiana, quell’altro da sé che lo straniero decide a un certo punto di far proprio. «La bellezza circostante» ha scritto una volta Brodskij, «è tale che quasi subito si è presi da una voglia assolutamente incoerente, animalesca, di tenerle testa, di mettersi alla pari». Con il suo sguardo «attento e straordinariamente inedito», Mario Fortunato indaga la natura mimetica di questo desiderio che, da Wilhelm von Glöden fino a Norman Douglas e a Wystan Hugh Auden, ha spinto illustri scrittori sulle nostre coste, convinti di essere approdati nella terra della piú sorprendente libertà sessuale («tutti lo fanno per divertimento», scrisse Auden a un’amica da Ischia). Lo stesso desiderio mimetico che ha permesso a Frederic Whyte, disegnatore di giardini inglese, di creare in Sabina un perfetto giardino all’italiana, e che, sempre in quel lembo di terra, ha allietato gli ultimi anni del grande editore Giulio Einaudi, il quale con dedizione assoluta curava, potando, innestando e concimando, le rose del suo piccolo giardino all’inglese. Quello che traspare, infatti, da queste pagine non è soltanto che i luoghi comuni sui popoli sono interessanti per il rovescio che nascondono, ma soprattutto perché rivelano che l’attrazione per «il diverso che ci svela a noi stessi» è «la prima regola del discorso amoroso» che da secoli perdura tra la nostra Italia e l’Italia degli altri. )
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