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CHRAïBI, DRISS, L'ispettore Alì e la Cia
CHRAïBI, DRISS, L'ispettore Alì al Trinity College
CHRAïBI, DRISS, L'ispettore Alì
recensione di Bartuli, E., L'Indice 1997, n. 7
"Il mondo è terribile e ci sono solo due soluzioni: o uscirsene stressati o prenderla in ridere. Io ho scelto la seconda soluzione e così, in qualche modo, assomiglio all'ispettore Alì. Lui passa il suo tempo a raccontare storie buffe": queste le parole con cui, nel novembre scorso, Driss Chraïbi ha motivato l'inversione di tendenza della sua scrittura degli ultimi anni. Sono passati quattro decenni dalla pubblicazione dei suoi primi romanzi - "Le Passé Simple" (1954) e "Les boucs" (1955) -, condensati di rabbia contro la sclerotizzata società marocchina e contro l'inumano trattamento che l'Occidente infligge agli immigrati maghrebini.
Da allora, dando alle stampe una quindicina di romanzi, Chraïbi ha continuato a fustigare ogni tipo di ingiustizia e ogni forma di umana stupidità, nello sforzo evidente di rendere visibili le problematiche delle minoranze inascoltate. Alla gioventù nordafricana alle prese con la modernizzazione ha dedicato "Succession ouverte" (1962), alle generazioni soggiogate dal "sogno americano" "Mort au Canada" (1975), alle donne "La civiltà, madre mia" (Franco Ricci, 1974, ed. orig. 1972), ai berberi "La mère du Printemps" (1982) e "Nascita all'alba" (Edizioni Lavoro, 1987, ed. orig. 1986).Inaspettatamente, ha anche voluto rendere giustizia - pur essendo un uomo poco incline alla religiosità - alla purezza dell'Islam delle origini e ha ricostruito, con "L'uomo del Libro" (Zanzibar, 1996) i tre giorni che precedettero la rivelazione del Corano al Profeta Muhammad.
Negli anni ottanta ("Une enquête au pays", 1981) il suo innato senso dell'humour, la sagacia che non l'ha mai abbandonato e la sua naturale propensione per l'irriverenza avevano partorito l'ispettore Alì: un inverosimile detective della Reale Polizia del Marocco, un tenente Colombo domiciliato a Casablanca e, in ultima analisi, l'alter ego dell'autore. Dagli anni novanta sarà lui, direttamente o indirettamente, il protagonista dei romanzi di Driss Chraïbi. Direttamente in "Une place au soleil" (1993), "L'ispettore Alì a Trinity college" e "L'ispettore Alì e la Cia". Indirettamente nell'esilarante "L'ispettore Alì" il cui protagonista, Ibrahim O'Rurk, altri non è che il romanziere marocchino che narra le gesta dell'ispettore Alì. Come Chraïbi O'Rurk ha moglie, e suoceri, scozzesi; mogli e figli ai quali narrare, a mo' di favole della buona notte, le eroiche gesta di un poliziotto marocchino chiamato a risolvere i più complicati intrighi internazionali; e, infine, un suo particolare genere di sadismo che lo spinge a far continuamente incontrare ingellighenzia e popolino per "mettersi a una certa distanza e guardarli vivere democraticamente".
Sarebbe un grave errore pensare che quest'incursione nel leggero e universale genere poliziesco rappresenti una capitolazione del grande fustigatore delle lettere marocchine. Già "L'ispettore Alì a Trinity College" contiene, a chiare lettere, il primo degli assunti centrali di tutta la saga e mette in scena, con il distacco di chi vive fisicamente altrove, un disarmante esempio di incontro/scontro culturale.
Distaccato a Cambridge per indagare sulla morte di Jasmina, fanciulla della nobiltà marocchina trasferitasi per motivi di studio in Inghilterra, l'ispettore Alì prende d'assalto "la Mecca degli ultrà" dell'insegnamento britannico: "Dall'inizio non ho smesso di fare il pagliaccio. Ho perfino caricato il mio personaggio, un personaggio non molto raccomandabile, maleducato, indecente, borioso, inquietante talvolta, non credibile. In ogni circostanza, ho messo in risalto la mia differenza di Arabo, con l'abbigliamento, il modo di mangiare e di esprimermi, lo sguardo torvo, il cervello nelle mutande - insomma, l'Arabo come lo si immagina nei film di serie B".
Di contraltare, prende nota di fenomeni sconosciuti nel suo paese: gli inglesi - gli autoctoni, gli indigeni - mangiano con la bocca chiusa, ridono emettendo "un breve getto di vapore sotto pressione", seguono masochisticamente le più astruse baggianate, che vengono loro contrabbandate come cultura, litigano senza litigare, hanno "gentlemen* in livrea che raccolgono foglie nei parchi e persino i loro gatti sono dotati di senso civico e non rovistano nella spazzatura. A dispetto di tanta apparente incomunicabilità, l'ispettore marocchino e i suoi omologhi britannici non esitano a collaborare e, nel finale a sorpresa, consegnano l'assassino alla giustizia.
Anche in "L'ispettore Alì e la Cia" il pluriomicida oggetto dell'inchiesta viene arrestato da una cooperazione marocco-anglo-canado-americana, ma l'intrigo poliziesco è forse l'elemento meno intrigante di tutto il racconto. Molto più appassionante è lo sguardo che Alì posa sul mondo, uno sguardo smaliziato che lo porta a sentenziare candidamente che gli americani "hanno rovinato i kuwaitiani dopo la guerra del Golfo" e che il presidente algerino Zeroual è "il capo della giunta militare di Algeri". Dalla bocca della moglie - personaggio onnipresente grazie al quale viene messa in continua discussione l'immagine stereotipa del maschio arabo prevaricatore - esce invece uno degli incisi più brillanti a proposito del "melting pot" statunitense: "una specie di "tajine" i cui ingredienti sono rimasti gli stessi dall'inizio della cottura, estranei gli uni agli altri. In fin dei conti, c'è sì un sugo, ma senza spezie, né curiosità". Voci di corridoio sussurrano che l'ispettore Alì sia già stato distaccato in Italia.
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