«Per quanto si riferisce a me, non provo appagamento alcuno per il mio lavoro, perche´ lo trovo meschino» scriveva Cechov all'amico Suvorin nel 1888. «Se e` ancor troppo presto per lamentarmi, non lo e` mai abbastanza per domandarmi: mi occupo di una cosa seria o di sciocchezze?». Il viaggio che, armato solo del passaporto e di una tessera di corrispondente di «Novoe vremja», intraprendera` due anni piu` tardi per studiare la vita dei deportati nella colonia penale di Sachalin e` la drastica risposta a questo interrogativo. Sbarcato ai confini del mondo, in un luogo dove Pus?kin e Gogol' sono incomprensibili e inutili e «l'anima e` invasa da quel sentimento che, forse, ha gia` provato Odisseo mentre navigava per mari sconosciuti», Cechov riuscira` – malgrado il boicottaggio delle autorita` e un clima che «predispone ai pensieri piu` foschi» – a penetrare nell'inferno della katorga e a denunciare, con una precisione e un'obiettivita` dietro le quali fremono pieta` e indignazione, il fallimento di un sistema dominato da ingiustizia e corruzione, e colpevole di infliggere «il grado infimo di umiliazione sotto il quale un uomo non puo` scendere». Ma riuscira` anche a fissare nitidissime visioni di sconvolgente bellezza: le contadine che nella valle dell'Arkaj, per ripararsi dalla pioggia, si legano intorno al capo gigantesche foglie di bardana e «sembrano scarabei verdi»; le lunghe strisce di sabbia che separano il Golfo di Nyj dal mare tetro e malvagio; i giljaki, dai larghi sorrisi beati che possono lasciare posto a un'aria «dolorosamente pensierosa, un po' come le vedove»; le donne ainu dalle labbra tinte di blu, chine sui pentoloni come streghe a rimestare la zuppa di pesce. )
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