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Classificando l’incapacità di adirarsi come una forma di debolezza, Aristotele aveva insegnato a non considerare l’ira una passione negativa, ma a riconoscere in essa una funzione della dinamica sociale. Invisa invece alle dottrine stoica ed epicurea, che ne auspicavano il totale sradicamento dall’animo, l’ira è per Seneca violenza cieca e sregolata, figlia di un eccesso di orgoglio, portatrice di effetti funesti. E dell’ira il trattato si propone di insegnare il dominio, nel duplice aspetto di capacità di controllare se stessi e di attitudine a frenare gli altri. L’introduzione di Costantino Ricci ripercorre puntualmente la cronologia senecana confermando e motivando la collocazione del De ira tra gli scritti dell’esilio.
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