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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2018
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Ma come, nemmeno un commento a questo capolavoro? Cosa si deve fare in questo paese per far leggere i libri veramente significativi?
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Su Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice nata a Catania nel 1924 e morta a Gaeta nel 1996, c'è ancora tanto da scoprire e da raccontare, e questo suo romanzo inedito, Io, Jean Gabin, che è appena uscito da Einaudi, viene a confermarcelo. Iniziato alla fine degli anni settanta "dopo i dieci anni del lungo viaggio nell'Arte della gioia", come ci informa Angelo Pellegrino nella documentata e affettuosa postfazione, fu abbandonato forzosamente quando, nell'ottobre del 1980, per una storia mai definitivamente chiarita, Goliarda finì nel carcere di Rebibbia. Da quell'esperienza nacquero due libri importanti, L'università di Rebibbia (1983) e Le certezze del dubbio (1987), ma quando la scrittrice si accinse a riprendere il romanzo che stava scrivendo era ormai fortemente delusa dall'ambiente culturale e sociale che la considerava, in quanto eccentrica, ghiotta occasione di illazioni e aneddoti e dal mondo editoriale: per usare un'efficace espressione di Pellegrino, "si considerava ormai del tutto postuma". Viene alla luce solo ora questa storia di insolita fascinazione, sulla spinta del grande successo che ha avuto non solo da noi ma soprattutto in Francia la ristampa della sua opera più importante, L'arte della gioia, effettuata da Einaudi due anni fa: finalmente Sapienza è stata riconosciuta per quello che è, una scrittrice di formidabile potenza espressiva.
E tale si conferma anche in Io, Jean Gabin: ecco profilarsi la sua figura un po' selvatica, completamente immersa nel suo porto natale, la Civita catanese, e nelle sue fantasiose nebbie di bambina; immaginiamola mentre si imbatte, sul mitico schermo del cinema, in quel porto delle nebbie di cui era signore assoluto Jean Gabin: una folgorazione immediata.
Sapienza ci aveva già raccontato di sé bambina in Lettera aperta che, nel 1967, la mette al mondo come scrittrice "Oggi, 10 maggio 1965, compio 41 anni ed ho quasi finito questo mio libro (
) Oggi rinasco o forse nasco per la prima volta" , ma la bambina che animava quel romanzo non è la stessa di Io, Jean Gabin. Lo sguardo inquieto della scrittrice, nel tempo, modifica prospettive e profondità; il suo atteggiamento nei confronti del passato non è mai improntato alla conservazione e alla cristallizzazione di persone, luoghi e sentimenti, quanto piuttosto a una revisione instancabile, che moltiplica e rifrange il punto d'osservazione. E poi, bisogna considerare che tra i due romanzi c'è di mezzo il mare aperto e tumultuoso dell'Arte della gioia e la creazione di quel personaggio larvatamente autobiografico, Modesta, che nella sua spavalda intelligenza e nel dionisiaco amore della vita costituisce un unicum nella galleria di personaggi del Novecento. Della bambina che è stata un tempo, ora Sapienza riesce a rappresentare le più intime, controverse sfumature in modo più libero e insieme più articolato e profondo.
Questa creatura chiamata Iuzza, a riscatto di un nome troppo impegnativo che era appartenuto a un fratello morto in giovane età prima che lei nascesse, appare da subito dotata di un grande amore per la libertà e allo stesso tempo confusa da molteplici realtà contrastanti che la stringono d'assedio. La prima, quella della famiglia in cui è nata, una famiglia di noti e coraggiosi antifascisti: una madre, Maria Giudice, combattiva sindacalista; un padre, Peppino Sapienza, avvocato difensore dei poveri; dieci tra fratelli e sorelle, figli di Maria e del primo marito, figli di Peppino e di altre donne. Più che un nido, un microcosmo di umori, di passioni, di forti individualità sempre pronte a dar battaglia non sulle minuzie di tutti i giorni, ma sui massimi sistemi politici, sociali ed etici. Stimolante, certo, ma anche sfibrante e a tratti indecifrabile per una bambina fantasiosa e insofferente delle regole, che ha smesso di andare a scuola dopo aver dato alle fiamme la divisa da piccola italiana, e che ora trascorre il suo tempo dentro e fuori casa, vagabondando per le strade del suo quartiere. Ed ecco la seconda realtà: quella cruda e immodificabile, eppure a suo modo surreale, della Civita. Un paesaggio umano di poveri, emarginati, piccoli truffatori, prostitute che si muove tra le quinte di un'architettura che solo di notte rivela il suo cuore stregato: "La Civita la notte, quando tutti i bassi erano chiusi, svegliava i suoi mostri scolpiti in quella pietra affilata d'inferno e cominciava a risuonare tutta di gemiti, grugniti, fiati lunghi di serpenti, mori, meduse, melusine".
Anche il fantastico può essere reale e Goliarda, fin da piccola, lo sperimenta in due luoghi: l'antro misterioso e colmo di meraviglie del commendator Insanguine, insigne puparo, e il cinema Mirone. Sono i luoghi dell'apprendimento e insieme della piena felicità: se nella bottega di Insanguine, rammendando con delicatezza i mantelli dei pupi, impara a prendere confidenza con l'epica e con il mito, nella sala cinematografica a tu per tu con Jean Gabin impara ad accostare quella vocazione eroica e randagia che l'attore sa esprimere così compiutamente.
Nell'itinerario di Jean Gabin, vagabondo, anarchico e destinato alla sconfitta, la bambina intuisce i sintomi di un sentimento della vita che in qualche modo le appartiene, mentre la scrittrice, reinterpretandola ad anni luce di distanza (anni di illusioni e disillusioni politiche, culturali, personali), conferisce a queste intuizioni il significato di un riconoscimento identitario più forte di qualsiasi influsso esercitato dalla famiglia e dall'ideologia, che per lei è stata sempre un abito troppo rigido. Ma non risiede soltanto in questo riconoscimento, sia pure importante, il segreto del fascino che sprigiona questo romanzo: è nel lessico e nello stile che si annidano le suggestioni più sottili e profonde. A somiglianza dell'architettura della Civita a lei tanto cara, la scrittura di Sapienza è lava pietrificata. Un cuore di fuoco che sempre brilla, selvaggio e incandescente, in una sostanza densa, modellata in forme espressive duttili e frastagliate. Forme che fondono ritmi epici e cadenze popolari, contaminano la limpidezza della riflessione con il torbido delle emozioni, modulano in infinite variazioni un' irriducibile vocazione al sogno e all'utopia.
Maria Vittoria Vittori
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