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Come si diceva della Arendt, noi pensiamo senza barriere, forse rendendoci agli occhi di molti imperdonabilmente indipendenti. Collocandoci fuori dalle categorie e dalle catene causa-effetto si comprende che “l’evento illumina il suo passato, ma non può mai essere dedotto da esso” . Per la Arendt “la grande sventura” nasce quando il politico si privatizza e il privato si politicizza”. Distinguendo tra produzione e lavoro, la Arendt precisa che nel produrre sorgono oggetti che resistono al rapido consumo, non si compie una continua ripetizione essendo una attività finalizzata. L’attività lavorativa, l’homo faber è l’individuo producente, di un modello che vuole fare e quando lo realizza il processo di produzione si conclude. Invece, quello che accade “dopo” all’oggetto finito, si sottrae al controllo del produttore, non si può dire cosa ne sarà, certo non sfugge mai al controllo umano... il produttore costruisce un mondo, ma non è un’attività in cui vi sia una pura apertura o incalcolabilità. Gli oggetti sono determinati dalla loro utilità per gli uomini e rimangono disponibili all’uso finchè non sono inutilizzabili o abbandonati (..). Il solo lavoratore o non capisce cosa sia un fine, mentre l’homo faber sa cosa è un fine, ma non sa cosa sia il senso. La pura apertura e libertà si danno per la Arendt solo nell’agire, che è il dono di incominciare qualcosa di completamente nuovo e di mettere in moto un processo, la rinascita, anzi la “natalità”. Difatti: “Il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli aspetti pratici, quotidiani, corrisponde alla certezza; il nuovo appare quindi sempre alla stregua di un miracolo”. Il mondo rumoroso, contraddittorio e mutevole non è che nient’altro “che la schiuma di ciò che è in verità”.
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