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Anno edizione: 2006
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recensione di Grassano, M., L'Indice 1997, n. 1
"Si può scrivere solo delle città che fanno parte della propria vita, che non sono sempre quelle in cui si è vissuto più a lungo"; forse per un caso, o forse perché si è cercato di assecondare l'istinto metropolitano dello scrittore, rivelato anche da questa frase, i due libri di Antonio Muñoz Molina finora pubblicati in italiano ci parlano di altrettante urbi dall'incanto particolare: Cordova e Lisbona.
"Córdoba de los omeyas" si propone, in superficie, come un libro di storia che vuol recuperare le principali vicende di quel califfato iberico divenuto mitico in tutto il mondo musulmano ("Il mio destino è quello di stare qui in Arabia e di rimpiangere i profumati giardini di Cordova" confessa Feisal al colonnello Lawrence nei "Sette pilastri della saggezza"). In realtà si concretizza anche - e forse soprattutto - in un'indagine letteraria, una ricerca dello "spirito della città" affine (anche stilisticamente, soprattutto nella scelta degli aggettivi e nella lenta costruzione delle frasi: si veda, in particolare, l'introduzione) al libro d'esordio del Borges prosatore, "Evaristo Carriego". Del resto, è lo stesso Muñoz Molina a confermarci tale consonanza: "Borges - la cui presenza finché rimasi a Cordova era stata assidua" scrive. Così sfila davanti ai nostri occhi, pagina dopo pagina, una teoria di califfi ora infervorati ora ignavi, da Abd al-Rahman "l'immigrato" a Hisham Ibn al-Hakam, ognuno con le proprie idiosincrasie, le proprie grandezze e le proprie miserie. E soprattutto trascorre una folla di personaggi ormai irrimediabilmente persi per ogni altra memoria che non sia quella di testi semisconosciuti: mercanti e artigiani, musici e militari, poeti e martiri che ci restituiscono la viva immagine di vicoli, strade, angoli i cui colori, "così puri nella prima luce del mattino", richiamano alla nostra mente "il chiarore dei paesaggi marocchini, verde d'oasi e rosso di creta, e la sensazione di sentire, in mezzo a un silenzio popolato di passi, la salmodia del muezzin". Con, per soprammercato, tante splendide citazioni di scrittori arabo-andalusi dell'epoca: perché, come dice il Profeta (alle cui parole Muñoz Molina sembra implicitamente attenersi), "l'inchiostro dei sapienti vale più del sangue dei martiri".
Completamente diverse le atmosfere che pervadono "L'inverno a Lisbona", romanzo tematicamente noir ma letterariamente compreso tra i numi - questa volta non citati - di Malcolm Lowry da una parte e di Álvaro Mutis dall'altra. I bar notturni, i personaggi erranti e cosmopoliti, un certo numero di teorie esistenziali e anche alcuni stilemi ricordano parecchio le pagine dell'autore colombiano ("Lisbona era la patria della sua anima, l'unica patria possibile per chi nasce straniero"; "Riempì i bicchieri con la serena lentezza di chi celebra una cerimonia intima"); riconducibile a Mutis è pure il tipo di ossessione amorosa che lega il pianista Santiago Biralbo alla perennemente fuggitiva, enigmatica e inquieta Lucrecia. Il Lowry di "Sotto il vulcano" è invece presente nel continuo stordimento alcolico (ben diverso dalla rassegnata, quasi stoica mistica dell'alcol dei personaggi di Mutis), nella realtà allucinata e angosciosamente sfuggente, nelle luci - psichedeliche, come per effetto dell'acido lisergico - delle vie notturne, nella sensazione spaventosa, quasi paranoica, di sempre incombente pericolo. Anche la normalmente suadente e serena bellezza della capitale portoghese si trasforma in una specie di incubo: "Non ricordava per quanto tempo, per quante ore o giorni avesse camminato come un sonnambulo per le strade e le scalinate di Lisbona, per i vicoli sporchi, gli alti belvedere e le piazze con colonne e statue di re a cavallo, tra i grandi depositi bui e le fogne del porto, al di là, dall'altra parte di un ponte rosso illuminato che attraversava un fiume simile al mare, per sobborghi di condomini che si ergevano come fari o isole in mezzo all'aperta campagna, in stazioni spettrali vicine alla città, di cui leggeva i nomi senza riuscire a ricordare quella in cui aveva visto Lucrecia".
Non raccontiamo la trama, perché, come abbiamo detto, si tratta di un giallo che si regge "anche" sulla suspense. Ma possiamo garantire che, nonostante l'apparente senso di straniante oppressione, il libro è in realtà di piacevole lettura, e rivela preziose gioie stilistiche, tali da farne l'ottima prova narrativa di un autore dotato.
In entrambi i volumi va rilevata l'abilità del traduttore: di Gianni Guadalupi ci erano già note altre pregevoli versioni, ma anche Elena Liverani se la cava piuttosto bene con la prosa in perenne tensione tra esattezza e delirio (anzi, "delirium") del romanzo lisboneta.
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