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Ogni parola, sebbene sembri innocente, è in grado di celare una insidia o una trappola: un termine filosofico, per quanto innocuo, può manifestare, occultandola, un’idea di politica e una gerarchia di poteri. Massimo Filippi, professore di neurologia all’Istituto San Raffaele di Milano ed esperto della “questione animale”, si spinge alle estreme conseguenze di tale riflessione, fino ad arrivare alla dicotomia originaria che traccia la storia dell’apparato oppressivo: il dualismo uomo/animale.
Cos’è al mondo naturale, se ogni atto è politico? Come fingere che ontologia e ragion di Stato non siano inscindibili, e non disegnino la mappa del cosmo quotidiano grazie a cui l’uomo contemporaneo si orienta e disorienta? Secondo Filippi, parafrasando Louis Althusser, bisognerebbe riconoscere che “la filosofia è lotta di classe nella teoria”, e tale “oblio” gnoseologico va affrontato nel suo aspetto più radicale: il rapporto umano/disumano e cultura/natura.
Se un’idea è proposta come pura datità, esente da condizionamenti storici – il presupposto che uomo e bestia siano mondi antitetici –, potrà giustificare ogni tipo di coercizione sull’animale, in quanto naturalmente inferiore, assolvendo la coscienza collettiva. Secondo Judith Butler, “le superfici del corpo, così come sono sancite in quanto natura, possono anche diventare il luogo di una performance dissonante e denaturalizzata che rivela lo statuto performativo del naturale stesso”.
Filippi parte da queste premesse per stabilire i fini della sua analisi, ovvero evidenziare la modalità grazie alla quale “umano” e “animale” diventano prodotti mostruosi di una società che si finge innocua, ma pratica la violenza in ogni categoria, traducendo in esito politico una aggressività prima di tutto teorica, poi sociale e culturale. Nel mondo postcontemporaneo la critica alle strutture, alle norme, a ciò che è regolare, all’idea di salute e alle forme, nasce evidentemente dall’atto primo di distinguere, come se nulla fosse, l’occidentale, bianco, eterosessuale, borghese, da un altro diverso, e poiché disumanizzato, passibile di essere oppresso perché animale (le descrizioni “bestiali” su certa stampa di zingari, extracomunitari e migranti autorizzerebbero inconsapevolmente a escluderli dall’umanità “sana”). Filippi insiste sulla palese montatura “ontologica” dell’operazione, atta a sancire il dominio di un mondo su di un altro. Non solo, tuttavia: la distanza che si pone fra uomo e animale porta anche a una vicinanza artificiale con sé stessi. L’idea di Sé ne risulta potenziata ed edulcorata, traducendo l’antica teologia trinitaria in un classificare assurdo e deformante, capace di consolare e rendere potenti, ma fondamentalmente congegno alienante e assassino. Per Agamben, “dispositivo” è tutto ciò che determina, ripartisce, cattura gesti, opinioni e discorsi degli esseri viventi; Filippi, accogliendo la definizione, insiste sul concetto di specie quale fondamento principe della manipolazione performante.
Come già Darwin giudicò la classificazione per specie un semplice modello teorico, uno stratagemma che nulla aveva a che fare con la realtà dei viventi, così lo studioso sottolinea quanto la specificazione sia l’arma originale attraverso cui si pratica la violenza verso l’altro, divenuto tale in seguito alla esclusione e non per sua intrinseca natura la quale, grazie a una architettura teorica fallo-logo-centrica, viene scissa e abusata dal potere costituito. La “normalizzazione”, prosegue Filippi, produce un danno mostruoso nella società, poiché deformando i connotati del vivente, scinde la personalità e produce violenza. La nevrosi è uno dei risultati principali, ma gli effetti più devastanti emergono chiaramente nell’aver trasformato il creato in un grande mattatoio.
Recensione di Andrea Comincini.
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