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Savona, 04-05-03 Il libro di Sias è insolito nel campo della psicanalisi. Il testo sembra cercare uno spazio editoriale e di lettura non per proporre argomenti accademici e di successo ma per esplicitare aspetti autentici della formazione analitica. L’autore riesce a calarci in un’atmosfera culturale che è quella della pratica analitica. Questo è il maggior merito dello scritto. “Inventario di psicanalisi” è un libro riuscito per l’autore ma incompreso nel mondo accademico. Le formule teoriche freudiane e lacaniane, ben presenti nello scritto, risultano fertili non rispetto a una necessità di produrre attraverso il lavoro psicanalitico nuove sintesi scientifiche e artistiche, ma in quanto con-sentono ricche riarticolazioni dei concetti clinici storicamente in gioco. Queste cinque conversazioni allargano le prospettive conoscitive dei casi cli-nici freudiani. Forniscono via via, lungo un moltiplicarsi inesorabile delle speci-ficità psichiche che Sias trova nell’esperienza in atto, una miriade di nuove pos-sibilità di trasformazione culturale del soggetto analizzante rispetto a una mate-ria biologica resa inerte dalla nevrosi pre-analitica. La cura nel libro non è vista come oggettivabile o classificabile in formule costanti. Essa si forma al di là della scienza, in un terreno privato che è l’inconscio. Terreno che all’inizio dell’analisi è ormai incolto perché la storia ha lasciato solo tracce di abbandono. La psicanalisi offre cultura per un cambiamento di questo stato ma lungo un transfert che il dispositivo analitico deve favorire e accogliere accettandone an-che i rischi. La psicanalisi, a patto di non applicare modelli scientifici o teorici già precostituiti, consente di arare di nuovo il terreno incolto. Per ciò lavorano l’analista e l’analizzante. In queste cose Sias dimostra una notevole sensibilità comunicativa Le conversazioni proposte dal libro sono il contributo più serio che uno psi-canalista può dare alla crescita della civiltà. Inoltre esse aiutano a conoscere la psicanalisi attravers
Recensioni
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scheda di Ronchi della Rocca, D., L'Indice 1998, n. 3
Con accenti ispirati da una rabbia santa e fustigatrice, con una prosa sincopata, interrotta da interpunzioni frequenti, domande retoriche, parole ripetute in un continuo allusivo allargamento di significati, l'autore (psicoanalista lacaniano, anche se probabilmente rifiuterebbe questa etichetta) espone in cinque "conversazioni" la sua condanna delle associazioni a scuole di psicoanalisi, che, a parer suo, hanno completamente tradito lo spirito originario di Freud. Sono stati i medici a compiere questo sacrilegio, riducendo la psicoanalisi, che è arte, poesia, letteratura, è la "reintroduzione del tragico nella civiltà occidentale", a una branca della psichiatria, per meri scopi di lucro: "Non si può "fare" gli psicoanalisti. Si "è" psicoanalista. È un modo costitutivo dell'essere (...) è una formazione dell'inconscio.È la mia sola possibilità di divenire, di "essere per altri": è un sintomo". Qui il linguaggio, che spesso ricorda il Nietzsche di "Così parlò Zarathustra", si colora di accenti heideggeriani. In effetti questo libro gronda cultura, dai tragici greci agli strutturalisti, ed è di interessante lettura, al di là della manifesta intenzione di essere originale a tutti i costi (per esempio la bibliografia è scritta in forma discorsiva, non cita i libri in fila ma li inserisce in un capitoletto dove vengono esposte le ragioni che "in-formano" la consultazione). Quanto al contenuto, mi si perdoni una sinteticissima banalizzazione: la psicoanalisi non è una cura ma un percorso creativo, le regole sono orpelli, l'importante è reinventarne i concetti, riscoprendo lo stesso spirito di Freud, così come ha fatto Lacan, che ovviamente va anch'esso superato e rinnovato. Insomma: "Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo".
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