Scrive la nipote Silvia che nel Natale del 1941 Piero Calamandrei invia in dono agli amici un libro di cui sono state tirate solo trecento copie, tutte fuori commercio. Il dono colpisce già dalla veste tipografica: Bernard Berenson ringrazia per il "capo d'opera" dell'arte tipografica di buon gusto, un altro scrive: "Ho notato anche la veste del tuo libro che ha uno squisito sapore quattrocentesco. Solo un grande signore fiorentino poteva dare alle stampe un volume così bello e così elegante, anche dal lato tipografico". Mario Praz: "E queste cose fresche, quella carta bellissima, quella scrittura linda
quasi non credo ai miei occhi". Sempre Silvia fa intuire che l'autore tenta un'operazione di "distanziamento", dilatando momenti di sospensione dalla storia per fuoriuscire in una dimensione quasi onirica. Siamo nel 1941, e il giurista politico e futuro firmatario della nostra Costituzione forse si rifugia in campagna per inventariare se stesso, i propri ricordi, in funzione analgesica con un presente guerresco e dolorosamente terribile. Il libro è un viaggio, che tratteggia ripetutamente delle prospettive fisiche dell'adulto che torna alla casa di Montaùto, (risucchiatura toscanissima di Montacuto), sulle trasformazioni fisiche del figlio che riscopre in se stesso le fatture del padre, che scrive paragrafi sublimi sul riscoprire le identità perdute nelle facce poche e riconoscibili dei compagni di giochi infantili. Gli sfugge nella prosa piacevole e letterariamente assai solida un "Padron Pierino", piccola razza padrona, ma primo della classe per merito. Compare Norina e stimola gli ormoni dell'adolescente che prova le prime passioni e pulsioni verso l'altro sesso, in un passo nabokoviano dove il giovane Piero appare quasi "un Lolito" di campagna. C'è lo zio Domenico, "innocente bambino dai capelli bianchi", quel disabile intellettivo che i bambini adorano e che è l'unico degli adulti a mettersi al loro livello: elemento di indimenticabile socialità infantile. C'è una pagina in cui la diatriba tra umanisti e scienziati viene filosofeggiata e quasi lasciata in sospeso, in un mondo letterario dove la poesia, anche quella della natura, ha comunque la meglio. Ma il libro è interessante perché testimonia dell'antropologia culturale di un'epoca e di un ceto: il nonno giudice, il babbo avvocato e parlamentare, che sa come vestirsi per passeggiare per le strade di Montepulciano e la casa di campagna, ma che soprattutto disvela quanto in quella fase l'Italia che studiava nel fiorentino liceo Michelangiolo fosse culturalmente strutturata nelle scienze naturali. La botanica emerge ovunque, anche nella scelta delle rappresentazioni iconografiche cui l'autore tenne moltissimo. Paola Roncarati ha scritto e discettato del suo erbario, oggi perciò noto. Sulle piante e sulle piantagioni Calamandrei rivela una cultura di base e applicata che va ben oltre quella consueta negli istituti agrari italiani, appunto in un periodo in cui le scuole superiori di agraria eccellevano per perizia e qualità dell'insegnamento. Ma è sulla zoologia e l'etologia che Calamandrei rivela doti acute di osservatore e tracce assai solide di una formazione pienamente omogenea con quella dell'Europa centrosettentrionale. Sa che il picchio si ciba di formiche; ed è la madre, donna custode delle culture domestiche, a spiegare che i "rizzaculi" sono le formiche rosse. Sono pagine di etologia classica quelle dedicate al ricordo del bambino Piero, che sotto il naso osserva una mantide che si ciba di mosconi e moscerini sulla frutta messa sobriamente a seccare da una madre operosa ed economa: insetto dalle zampe a tenaglia affilatissime e prensili e la sua aria di ipocrita essere pregante, dunque "religiosa". Compare un pappagallo, animale domestico, allora; augurabilmente non più oggi, dato che esseri sociali come scimmie e pappagalli, se isolati sono destinati a impazzire. Vecchissimo con "la lingua, che ogni tanto dalla bocca sdentata si vedeva venir fuori, violacea e conica come un pistacchio, pareva ingrossata e annerita dalla vecchiaia". Terrorizzato dai bambini si nascondeva ratto sotto i mobili, ed era quello di tendergli lunghi agguati uno dei giochi del piccolo Piero: chissà se qualche bambino l'avesse molestato in passato, o se vedesse nelle dimensioni e nelle movenze di un bambino quell'archetipo di giaguaro che nelle foreste tropicali insidia da tempi immemori pappagalli di tutte le varietà e colori. I funghi e la loro raccolta rappresentano un episodio omerico, quello della stagione fortunata e improvvisa che sfama per qualche giorno genie di affamati agresti, solitari gratta e vinci nella monotonia della quiete campagnola. C'è anche il ricordo del professore di scienze naturali, "che al ginnasio superiore insegnò a conoscere per nome le piante e gli insetti del mondo. Per sua virtù quel caos luminoso di fogli e d'ali turbinanti in libertà quale ancora m'appare la campagna dei miei primi ricordi, si placò e si chiarì in un sistema di nozioni ordinate. I lepidotteri si separarono dagli imenotteri, le rosacee dalle graminacee: il più tenue filo di fieno, la più minuta elitra luccicante al sole si distaccarono ad uno ad uno dalla natura anonima e mi vennero incontro con loro doppio nome latino; quando ebbi saputo che la margheritina si chiamava Bellis perennis, non potei più incontrarla sui prati senza rivolgerle un saluto, come si usa, dopo la presentazione, fra persone di conoscenze". Enrico Alleva D.Santucci
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