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Intellettuali, dittatura, razzismo di stato - Giovanni Rota - copertina
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Intellettuali, dittatura, razzismo di stato
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Descrizione


Quale atteggiamento hanno avuto gli intellettuali nei confronti del razzismo di Stato novecentesco? Che consapevolezza hanno avuto di quanto accadeva? I cinque saggi qui raccolti intendono contribuire a rispondere a questi quesiti ripercorrendo le significative vicende di alcuni filosofi e intellettuali nel contesto dei regimi totalitari e razzisti. La figura di Giovanni Gentile viene così considerata tenendo conto in particolare della legislazione del 1938, un passaggio decisivo nella storia del fascismo, che però non venne riconosciuta come tale dal filosofo. Diversamente da Gentile (la cui posizione rifletteva quella di larga parte dell'intellettualità italiana del periodo), Julius Evola, il più conosciuto e discusso tra i razzisti italiani, costruì una sistematica teoria della razza. Giorgio Levi Della Vida fu invece vittima delle leggi razziali dopo essere già stato discriminato nel 1931 per le sue idee, quando fu tra i pochissimi professori universitari che si rifiutarono di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo. La riflessione filosofica di Adriano Tilgher, uno dei primi e più acuti interpreti del fascismo e della relazione tra esso e la filosofia gentiliana, è l'espressione esemplare di una cultura resa politicamente innocua e poi lasciata relativamente libera di svilupparsi secondo modalità inoffensive. Completa il volume un profilo di Jean Améry, vittima del razzismo di Stato e interprete critico del ruolo svolto dagli intellettuali nel XX secolo.
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Dettagli

2009
14 novembre 2008
208 p., Brossura
9788856802597

Voce della critica

Più che gli intrecci fra mondo della cultura, razzismo e dittatura, sembra che il fulcro dell'indagine di Rota sia l'idealismo, indagato non nella sua veste filosofica, quanto nella concretezza di fenomeno storico-culturale, da ripercorrere nei suoi approdi e snodi, attraverso le biografie intellettuali di Gentile, Evola, Levi della Vida e Tilgher. Lo sforzo di mantenere la pacatezza di giudizio e di contestualizzare adeguatamente i documenti emerge in particolar modo nell'analisi del presunto "antirazzismo" gentiliano, di cui Sasso e Faraone avevano enfatizzato la portata e che qui, senza essere negato, viene ricondotto – grazie a una rilettura del caso Cogni, Cassirer e Kristeller – a una sfera solo privata, che mai sconfina in dichiarazioni pubbliche in contrasto con i dettami del regime. Evidente il debito nei confronti dell'attualismo dell'evoliano "spiritualismo estremo", che, frutto di uno spinto eclettismo culturale, era stato in grado di fornire, attraverso la formula del "razzismo spirituale", un'alternativa "credibile", o per lo meno culturalmente fondata, al razzismo biologico hitleriano. Gentile è ancora presente nell'itinerario di Levi della Vida, il cui appello ai valori illuministici e la forte tensione etica della scelta di non giurare al fascismo nel 1931 non risultano intimamente compresi dal filosofo dell'atto puro. Ma quello stesso storicismo gentiliano, denigrato grossolanamente negli anni venti, appare nel 1935 a Tilgher assai più conseguente di quello crociano, di cui si mettono in discussione gli schematismi e l'indifferentismo. Eccentrico rispetto alla tradizione culturale qui trattata, il saggio su Améry sposta infine l'attenzione sugli effetti reali della persecuzione antisemita e, nel rifiuto del concetto di "banalità del male", richiama i valori della ragione contro le deviazioni irrazionalistiche di certo idealismo.
Alessia Pedìo

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