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In un famoso discorso del 10 ottobre 1928 Mussolini se ne uscì in una massima che, seppur non tra quelle da stampigliare su intonaco per inculcare principi da ritenere a memoria, esplicita una considerazione chiave della politica del regime verso l'intellettualità: "La tessera non dà l'ingegno a chi non lo possiede". Se di per sé, dunque, l'essere iscritto al Pnf non produceva eccellenza, né automaticamente una caratterizzazione ideologica consona alla dottrina imperante, era necessario intrattenere con giornalisti e scrittori rapporti subdoli e accorti. Più che pretendere un'adesione convinta agli obiettivi proclamati, era opportuno tenersi buoni quanti coltivavano il mestiere del pubblicista o nutrivano ambizioni letterarie o in senso lato artistiche, cercando di ottenere in cambio da ciascuno qualcosa di utile, ma senza eccedere in costrizioni e osservando una tattica di segreta prudenza.
Attraverso l'esame di una corposa documentazione, proveniente dall'archivio del ministero della Cultura popolare, rinvenuta nel dicembre 1978, Giovanni Sedita elabora un dettagliato quadro delle sovvenzioni elargite a singole persone e a organi di stampa nel decennio 1933-43. La lista, fonte anch'essa a sua volta, che dal materiale ricavò scrupolosamente il Psychological Warfar Branch delle forze alleate, poco dopo l'ingresso in Roma nel giugno 1944, a fini di epurazione, contiene 906 nominativi, dei quali 201 beneficiari di una sovvenzione fissa, e i titoli di 387 organi di stampa. È evidente come si procedesse caso per caso, distinguendo situazioni e attitudini, con la certezza che il legame istituito avrebbe potuto fruttare o un benevolo silenzio o espressioni di consenso o valutazioni critiche ma non di aperta opposizione: buone anch'esse per costruire un'opinione pubblica non ostile. Più che alla definizione dogmatica di una cultura fascista o di un'estetica riconducibile alle linee speculative proprie del fascismo, si puntava a una rete di relazioni che permettesse richieste e controlli, ben modulando il discorso secondo interlocutori, disponibilità, opere, vocazioni. Il dibattito insorto anni fa sull'esistenza o meno di una cultura fascista divampò improvviso e fu sbrigativamente condotto. È certo che ci fu una politica fascista verso molti intellettuali che alternava sostanziale rigidità e duttile tolleranza in un mix che le carte qui esaminate contribuiscono a lumeggiare in significativi, e talvolta emblematici, passaggi.
Il totalitarismo mussoliniano ha tratti suoi propri rispetto ad altre esperienze europee: le zone di libertà accordate sono ampie e ammesse, purché non compromettano o delegittimino le fondamenta. "A conti fatti conclude Sedita, il regime proponeva un accettabile modus vivendi sospeso tra la concessione e il vincolo". Per questo l'emigrazione sarebbe stata contenuta e fiorirono posizioni abbastanza variegate: se non un "pluralismo fascista", un plurale disporsi entro coordinate esigenti ma adattabili. L'indagine del saggio sviluppa e conforta considerazioni di Renzo De Felice analiticamente riprese da una serie di monografie (di Brenner, Cannistraro e Gentile le principali e affini). Più dichiarata, però, avrebbe dovuto esserne la parzialità d'estensione, suffragata da una fonte, che, per quanto centrale, non esaurisce affatto il tema e quindi non può essere invocata per conclusioni generali. L'intellettualità coinvolta nelle insidiose strategie "quattrini alla mano" dei Ciano e degli Alfieri, dei Polverelli e dei Pavolini era perlopiù quella attiva nel campo delle lettere, propensa a un'inventiva di non immediato spessore politico. Restano ovviamente fuori dal quadro sia i dissidenti che i perseguitati, oltre che quanti avevano optato per la strada del fuoruscitismo. Circa gli effetti sortiti e le modalità osservate nei finanziamenti, Sedita è corretto nel seguire il criterio del caso per caso, il solo che dia conto dei risultati conseguiti ed eviti generiche e moralistiche condanne. È il sistema messo in piedi e alimentato dalla dittatura a mostrare tutta la sua mortificante e felpata brutalità ed esso è il protagonista della trista storia.
Le storie di chi accettava di partecipare alla spartizione talvolta di briciole e non sempre per occasioni rilevanti hanno ciascuna una sua cadenza, un retroterra, uno svolgimento. E meritano di essere ricondotte a percorsi biografici o "forme di vita" renitenti a semplificate classificazioni o ad assemblaggi tipologici. Le cifre stanziate variavano sensibilmente: per Pietro Mascagni si registra la somma strabiliante di uno stipendio mensile di 10.000 lire, mentre ben minore è quella decisa per Sibilla Aleramo, e per Vasco Pratolini il caso ha fatto molto discutere la durata si restringe a un anno. Malgrado la freddezza con cui si è obbligati a riflettere sulle vicende che il libro evoca, non di rado chi legge può essere assalito da un moto di pena, da un fastidio almeno per me incontrollabile. Nel 1933, tramite Ciano, Aleramo indirizza un'implorante e servile supplica al duce: "Voi che intendete la confessione dei poveri poeti
". E Vincenzo Cardarelli nel '32: "Se si potesse concedermi qualche mese di soggiorno in campagna sono certo che riuscirei a scrivere sul Fascismo un centinaio di pagine non indegne dell'argomento". Giuseppe Ungaretti si era prosternato fin dai primi anni dell'avvento al potere del movimento fascista e si era rivolto a Mussolini "come a un signore della Rinascenza". Più tardi aveva indossato le vesti ufficiali di ispirato propagandista-conferenziere all'estero, impegnato nell'esaltazione delle imprese dell'Italia in camicia nera fin in Brasile e Argentina: "Non ho cessato scrive nel dicembre 1937, come sempre, se non di fare il mio dovere d'Italiano, di fedelissimo milite del nostro Duce". Nel memoriale difensivo compilato nel gennaio 1945 a discolpa della sua lunga collusione con il regime, Ungaretti avrebbe sostenuto che la sovvenzione da lui incassata era elargita con indifferenza a "scrittori e artisti bisognosi" e non aveva altro scopo che quello di far "proseguire con tranquillità il loro lavoro: "Essa chiosava ai miei occhi non aveva diverso carattere della sovvenzione dello Stato all'agricoltore, perché possa portare a termine i lavori di bonifica". In questa patetica interpretazione non sai se cogliere l'astuzia di chi si vuol sottrarre alle sanzioni epurative o la disarmante confessione di chi aveva vissuto dentro un ingannevole labirinto di tortuose e ambigue complicità.
Numerosi altri avevano innescato un "doppio gioco", spesso giostrato con maestria o magari avevano intascato un una tantum per circoscritte e innocue prestazioni. E le riviste avevano goduto di un appoggio non di rado offerto sorvolando sulla loro ortodossia. Ad esempio, "L'Italiano" di Leo Longanesi e "Il Selvaggio" di Mino Maccari ottennero rispettivamente 360.000 lire e 236.000 lire. Si tratta di due testate annoverate, non a torto, tra quelle più attraversate da un irriverente e salace frondismo. Giova chiedersi fino a che punto le frecce velenose di acre satira scoccate dai due nani fraternamente amici non siano state funzionali all'accettazione di un sistema se non totalitario fino agli esiti estremi, duramente repressivo e incidentalmente "liberale". E l'interrogativo non vale solo per allora.
Roberto Barzanti
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