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Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-50). Atti del Convegno (18-20 marzo 1983)
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1985
1 dicembre 1985
2 voll., 740 p.
9788822233332

Voce della critica


recensione di David, M., L'Indice 1985, n. 6

Che Firenze tenti oggi di rivendicare un primato perduto mi pare un impegno meritorio da parte di una società culturale non rassegnata. Il convegno del 1983 sugli intellettuali di frontiera, cioè sui triestini "fiorentinizzati" nella prima metà di questo secolo, è una delle manifestazioni più serie, non la più appariscente n‚ turistica, di questa volontà di nuovo prestigio. Gli atti, riuniti da Roberto Pertici, escono ora, in due imponenti volumi, che si affiancano al notevolissimo catalogo della mostra che al convegno era stata abbinata.
La Firenze del 1900, se dovessimo ricostruirla mentalmente sulla scorta di testimonianze non troppo interessate ("Barnabooth" di Larbaud, le "Confessions" di Luchaire o l'"Epostolario" di Michelstaedter) forse non parrebbe così "centrale" come la vuole Asor Rosa nella sua relazione. Forse l'aspetto meno "centrato" del convegno è in questa mancata immagine della Firenze protonovecentesca, insieme alla scarsa meditazione sulla nozione stessa di frontiera. Nel 1900 la lista delle istituzioni culturali fiorentine non era sterminata: l'Istituto di Studi Superiori che si stava arricchendo di un Istituto di psicologia sperimentale, di cui Stefano Poggi ci indica nitidamente i limiti e le future, modeste aperture verso la psicanalisi (prima che a Trieste); il Vieusseux, allora con funzione di solo prestito di libri, la Società Leonardo da Vinci, dove Ojetti, a tratti D'Annunzio, officiavano, la Biblioteca filosofica di Amendola, per non dire di quella Teosofica di Arturo Reghini, degli editori in fase modesta rispetto a Milano o Roma; alcune riviste declinanti prima del risveglio del "Leonardo" e della "Voce", le Accademie di Belle Arti e di Musica (ottimi, in questo volume, i contributi di De Angelis e di Fiamma Nicolodi su Dallapiccola); le colonie straniere, specialmente anglosassoni, con l'Istituto tedesco di storia dell'arte e, fra poco, l'Istituto francese di Luchaire e il cosmopolitismo di un Placci, di un Vannicola. "Provinciale", secondo Larbaud, "gran centro rurale" senza industria, secondo Luchaire, perfino "un po' sonnacchiosa", secondo Cecchi, la stessa Firenze appariva, sempre a Cecchi ma con lo sguardo del 1953, "centro di cultura assai avanzata e brillante". Del resto Michelstaedter, passate le prime esplosioni liberatorie, confessava la propria noia del tran tran fiorentino.
Eppure, se si avverte che Firenze stava diventando anche un polo d'attrazione per alcuni meridionali (Salvemini, Amendola), per i liguri - un convegno dovrebbe adesso occuparsi di loro, gente di frontiera -, la domanda non può essere evitata: cosa spingeva a questa emigrazione? Il convegno ha cercato di rispondervi per i triestini. E la risposta non è sempre precisa, data la diversità dei destini individuali. Trieste aveva infatti tanti pregi, già decantati a iosa: i traffici, i commerci, il cosmopolitismo, la Borsa, scuole d'avanguardia, come le definisce Marino Raicich, animatore del convegno (ma si veda anche la comunicazione di N. Sistoli Paoli). L'interesse alla cultura era vivace, anche se provinciale - con i paradossi del provincialismo che producono uno Svevo. Ma Trieste, ormai mitizzata la sua capacità di sottigliezza intellettuale e di sismografo della crisi, ha reso i suoi esegeti ancora più complicati delle situazioni da analizzare e le risposte sono state spesso sfuggenti. Il più esplicito, dopo Raicich, è stato Apih: senso della perifericità, chiusura dello sviluppo culturale senso d'inferiorità, fascino di un Salvemini e d'una "capitale del dissenso" (Cusatelli), immagine estetizzata, sacralizzata. La risposta più evidente è stata accennata più che ribadita: la fede nel riciclaggio linguistico è stata la molla più banalmente materiale di cui tutti i triestini danno testimonianza chiara, incluso Saba. Per la riqualificazione di quei giovani "intellettuali proletari" in cerca di prestigio, la via passava per una fiorentinizzazione lessicale ed ortofonica, e attraverso diplomi "nostrificabili", cioè utilizzabili nell'impero. Naturalmente, il motivo più alto della libertà e del respiro intellettuale si legava al primo, e ben presto l'incontro con la nascente "Voce" di Prezzolini (Asor Rosa ha centrato la sua relazione su un Prezzolini sofista e pre-fascista, quasi ad ironizzare sulle premesse rivendicative degli organizzatori del convegno) avrebbe sigillato il patto di fiducia.
Ed è quel gruppo d'intellettuali battaglieri che porta il fermento essenziale negli anni più caldi dell'osmosi fra le due città. Naturalmente a Prezzolini e a Papini, di cui i fiorentini non si peritano oggi di rivalutare gli esordi, altri preferiscono Salvemini come più valido suscitatore e interlocutore di uno Stuparich, o di un Angelo Vivante, la cui figura - anche se fallimentare profeticamente ed esistenzialmente - è tuttavia uscita chiaramente ingrandita dal convegno. Le date del vero incontro sono poi da determinare tra il 1905 (arrivo di Saba, Doplicher, Michelstaedter) e il 1915, anno della partenza per l'eccidio e i suicidi. Insomma, dieci anni
Dopo, saranno sparuti gruppi di studenti dalla Regia Università (lo documenta Elvio Guagnini) a mantenere un contatto, che sarà fecondo creativamente più che altro per la collaborazione a distanza con riviste: la scoperta europea di Svevo, il nascente mito letterario di Trieste (Pancrazi, Carocci, Debenedetti, Benco) provocheranno l'emblematica "Solaria" a cercare un supplemento di lustro sbandierando Svevo, Saba, Giotti e ancora Quarantotti Gambini (illustrato da Bosetti) oppure Morovich (la cui amicizia con Carocci è descritta da F. De Nicola). E per il secondo dopoguerra Luri cerca di dimostrare che il filo rosso non s'interrompe, ma va cercato nelle riviste come "Il Mondo", "Letteratura", "Belfagor", "Paragone" e soprattutto nel "Ponte" di Calamandrei. Dopo il '15 la sfasatura di una cultura municipale fondata sulla lotta contro l'occupante (e contro la frontiera interna con gli slavi- a parte i cenni di Ara-Magris e Negrelli, chi li ha studiati al convegno?), l'italianizzazione ha contribuito più che altro alla mitizzazione di Trieste.
Il convegno è stato ricco di ricerche d'archivio, condotte in quelli più recentemente accessibili: l'archivio di Prezzolini è stato visitato con acume da Enrico Lombardi; quelli di Vallecchi, Carocci, Primo Conti, Stuparich, Dallapiccola, Fano, Lombardo Radice, Michelstaedter hanno concesso ai curatori del catalogo di compendiare brillantemente una massa vasta e precisa di riferimenti. Un personaggio tutto da scoprire come Dario De Tuoni, studiato da L. Campos Boralevi, i giudizi di Saba su Michelstaedter (R. Tordi), sono alcuni dei risultati concreti di tali scavi. Il polemico Carpi è riuscito perfino a imbastire un corposo studio sul futurismo giuliano (Carmelich, Dolfi, ,Jablowsky, Cergoly-Sempresù), con riviste ormai irreperibili.
Forse sono stati i contributi settoriali, eruditi, nutriti di inediti quelli più innovatori. Mentre le relazioni generali deludono alquanto, non per mancanza di dialettica, ma perché provengono da autori maturi le cui tesi sono ormai consolidate e note. Ara riprende in parte pagine recenti e mi pare tenda a una certa prudenza nel rivendicare la funzione mediatrice di Trieste. Così Papini e Prezzolini risultano i veri promotori del progetto vociano di specializzazione dei propri collaboratori con settori europei designati. Ara sottolinea con ragione la tarda, ma reale apertura verso l'Austria con Bazlen, Gnunänger, Mittner, Antoni, Fano, Weiss, Valiani, in campi non artistici per lo più, come pure l'importanza di una troppo trascurata cultura, quella dei bancari e degli agenti economici.
Magris, ormai attento a non lasciar dilagare oltremodo, storicamente, le acque del Danubio, pare quasi ammettere che la mediazione più importante, quella con l'Austria (o con gli slavi), fu mancata e solo in parte compensata con la promozione degli scantinati (i tardo-romantici tedeschi, già noti a Milano e Firenze), per mezzo di traduzioni e saggi che furono scarsamente ascoltati dai fiorentini. Il caso Weininger, straordinario test tosco-triestino, è stato forse, come ricorda A. Cavaglion, l'unica scoperta contemporanea e comune di Prezzolini e del triestino Steno Tedeschi. Era purtroppo una delle operazioni più mistificatorie che si siano fatte ai danni della cultura italiana. Negrelli ha compiuto il tentativo più articolato di agganciare la "ricerca d'identità" di Slataper ed amici ad un passato pesante, seppure "senza storia", e ad un presente cercato in Toscana. Nel dare e nell'avere, Firenze non perde mai, perché si appoggia invece ad un'enorme storia. Trieste che viene a fare, paradossalmente, un giro di valzer ogni tanto nel Granducato, ci guadagna sicurezza linguistica maggiore, aggiornamento culturali provocanti, consigli tattici, e un prestigio che potrà perfino redistribuire, nei giorni della miseria, all'amica protettrice. Così, nel mito attuale e nel congresso che ne segna i limiti, Trieste specchio (e vittima non innocente) della Krisis, si contempla nello specchio teso dagli amici e li fa così partecipare della sua patetica gloria.


recensione di Frigessi, D., L'Indice 1985, n. 6

La frontiera segnala zone che geografia e lingua, storia, civiltà caratterizzano come alterità. I rapporti intrattenuti con Firenze dagli intellettuali triestini e giuliani durante la prima metà del secolo costituiscono una trama intricata e plurivalente entro cui si configurano problemi di identità: quella di Trieste, "linea fatale per l'Europa" (Benco) e, molto più in ombra, l'identità della Firenze novecentesca, il ruolo di queste due città nella composita e diversificata geografia sociale e culturale del paese.
Triestinità-fiorentinità, periferia-centro: questi topoi, fortemente riduttivi; tendono a semplificare e talvolta ad ignorare una serie di questioni di fondo. Ci si dimentica che la prospettiva cambia a seconda del punto di vista da cui si pone l'osservatore. E per esempio Firenze, ex-capitale della nuova Italia, nei primi decenni del secolo assume un ruolo culturale forte e diventa uno dei poli culturali d'un paese per molti aspetti arretrato e periferico. Trieste è piuttosto la periferia (o la colonia) di un'area in molti sensi centrale come l'Austria-Ungheria, anche se è probabile che i triestini abbiano recepito in determinati momenti soprattutto il primo aspetto, quello periferico, della loro città.
L'identità di Trieste non può prescindere dai rapporti con la Mitteleuropa, che ne sono una parte determinante. Nella sua relazione in "Intellettuali di frontiera" (I, Olschki, 1985) Giorgio Cusatelli sottolinea l'esclusione degli austriaci dal ventaglio degli interessi della "Voce ". Sarebbe il segno, nel caso ad esempio di Scipio Slataper, d'un rifiuto e addirittura di una presa di posizione ideologica. Non si mette però in dubbio il rapporto dei triestini vociani con la letteratura di lingua tedesca. Anzi, in più luoghi dei due volumi che raccolgono ora relazioni e contributi al convegno dell'83 sui triestini a Firenze, si enfatizza il ruolo di questi intellettuali che hanno innestato la nostra letteratura in quella d'oltr'alpe con la loro varia e tenace attività di traduttori e, più in generale, d'importatori della cultura europea. I relatori non hanno potuto discutere l'ipotesi di Michel David _ non ancora consegnata alle stampe _ che tende piuttosto a dimostrare l'esilità degli scambi tra i triestini e la cultura danubiana (mitteleuropea).
Quale era la cultura austriaca dei triestini prima dell'italianizzazione?, si è chiesto appunto David. Tra il 1900 e il 1910 si assiste addirittura ad un rigetto mentre prima tra le due culture era mancata l'osmosi. Le testimonianze in questa direzione dei protagonisti intellettuali, citate quale prova da David (in "Trieste entre le Danube et l'Arno", Cencio, III, Grenoble l984) sono di grande interesse, servono a demistificare, a segnalare l'anacronismo, la moda, l'aura di cui il mito di Trieste mitteleuropea è stato circondato e i rischi in cui incorre la sopravvalutazione della triestinità. Insomma non si deve credere che i triestini fossero impregnati di una cultura austriaca come quella che ci presentano spesso i suoi odierni esegeti (Wittgenstein, per esempio, e gli austro-marxisti). E del resto lo stesso David e ancora nell'83 Marino Raicich hanno dimostrato che i triestini proprio a Firenze scoprono alcune novità culturali di Vienna (Schönberg per esempio) e che paradossalmente Firenze agisce da rivelatore delle loro conoscenze tedesche e danubiane. Il cosmopolitismo degli intellettuali triestini è dunque un fenomeno reale ma monco e contraddittorio, anche perché con intenzione resta chiuso (Claudio Magris) di fronte al più vicino mondo slavo.
Neppure sui rapporti tra triestini e fiorentini durante gli anni della "Voce" ci sono ipotesi omogenee. Direi che _ schematizzando _ se ne possono identificare almeno tre. I triestini (che avevano costituito allora una specie di piccolo gruppo di pressione) erano più impegnati e moralisti dei vociani, non per caso si sentivano soprattutto affini ai meridionali come Amendola e Salvemini per la loro tensione morale e per i loro ideali politici e umanistici. In questo caso si rammentano l'"altra specie" di Saba, i "ripugnanti" triestini di Papini e per contrasto Firenze viene descritta come una società degli apoti. Oppure (è l'ipotesi non nuova di Asor Rosa) si afferma la superiorità del centro fiorentino, che produce soprattutto con le sue riviste una nuova organizzazione di cultura, o ancora si afferma che vociani provenienti da tutta Italia e vociani triestini erano uniti da uno stesso progetto di rinnovamento della cultura e della società italiana. La prima e la seconda ipotesi contengono un giudizio di valore ("superiorità" dei triestini o dei fiorentini). La terza ipotesi suppone che alcuni tratti di derivazione gramsciana siano comuni a questi intellettuali: un certo tradizionalismo che si manifesta in legami campagnoli e piccolo borghesi, la consapevolezza non abbastanza lucida dei problemi che occorre affrontare nella società capitalistica nuova. Ma non soltanto i miti si rovesciano con il cambiare dei tempi: la cultura letteraria triestina, prima legittimata dai fiorentini della "Voce", rappresenterà poi, per esempio con "Solaria", una forma nuova di letteratura. Per restare ancora agli anni della "Voce", è la diversità delle stagioni storiche e in particolare delle esperienze sono giunte e delle quali gli intellettuali _ appartenenti alle due aree geografiche e culturali _ sono espressione, a condizionarli. "Trieste è nata città borghese", scrive Negrelli. Mi sembra che bisognerebbe approfondire questo punto concreto.

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