Forse il sottotitolo può appropriato di questo libro, che compare nella collana fondata dal compianto Antonio Erbetta, sarebbe stato "L'opera di Horkheimer", perché l'ultima fase del pensiero del padre della Scuola di Francoforte (quella che va dal ritiro dall'attività accademica nel 1959 alla morte nel 1973, periodo in cui Horkheimer accentua i temi pessimistici e schopenhaueriani nella diagnosi della società totalmente amministrata, con ampie aperture alla "nostalgia del totalmente Altro" delle tradizioni religiose) è analizzata alle pp. 191-210, ma il saggio di Giachery è principalmente un'ampia e attenta disanima di tutto il pensiero di Horkheimer. La "teoria critica" è ripercorsa dalla prima attività dell'Istituto per la ricerca sociale nel contesto storico nella Germania di Weimar (cap. 1), all'elaborazione matura delle tematiche francofortesi insieme ad Adorno, culminante nella Dialettica dell'illuminismo, composta durante la guerra nell'esilio statunitense (cap. 2), all'esame dei saggi scritti dopo il ritorno in Germania (cap. 3) e della Eclisse della ragione, terminata nel 1947, un libro fondamentale perché espone in termini meno brillanti ma più chiari che nella celebre Dialettica dell'illuminismo il contrasto tra ragione soggettiva e "oggettiva", ragione strumentale e ragione critica (semplificando per brevità, tra ragione empiristica e tecnica, positivistica e pragmatistica, e ragione dialettica hegelo-marxista, rinnovata con l'apporto di Schopenhauer, Nietzsche e Freud). I risvolti pedagogici sono una continua polemica contro le conseguenze educative della ragione strumentale: "Conformandosi ai canoni dell'industrialismo e della società mercificata, l'educazione diviene semplicemente adattamento, problem solving, strategie possibili di semplificazione di ciò che per sua natura, cioè la realtà, non può essere semplificato". Non c'è più posto per la comprensione e per una vera conoscenza, che vengono sacrificate ad "abilità da acquisire nel più breve tempo possibile". La Zivilisation, nella società totalmente amministrata del tardo capitalismo, distrugge la Kultur e priva la formazione della sua portata critico-emancipativa. Al nesso tra posizioni filosofiche e teoria pedagogica in Horkheimer (ma anche in Habermas, Honneth ecc.) è dedicato specificamente l'articolato capitolo finale. Una pedagogia critica, scrive Bernhard citato da Giachery, "nasce dall'esperienza sociale di una contraddizione tra l'aspirazione dell'uomo all'autodeterminazione e una realtà che gliela nega". Ma quale spazio ha l'educazione all'autonomia critica degli individui quando, come afferma Giachery, "la tecnicizzazione della realtà ha ridotto, in genere, anche l'azione formativa a puro strumento dell'adattabilità sociale"? Il principio di Horkheimer e Adorno, come disse il primo ricordando l'amico scomparso, era: "Essere pessimisti in teoria e ottimisti nella pratica". Forse la pratica dimostrerà all'"educatore [che] accetta il rischio dell'altrui volontà di autonomia" che la teoria, nella sua radicalità, è una semplificazione affascinante ma spesso poco incline a dar conto di quella complessità contraddittoria del reale che pure essa riconosce a parole. E forse questo educatore sarà anche disposto a vedere nello strumentalismo e nell'attivismo pedagogico di Dewey qualcosa di migliore e diverso dalla riduttiva immagine che ne dava Horkheimer. Cesare Pianciola
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