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Qui dentro c'è tutto quello che un manuale di storia o di letteratura, anche specialistica, non riuscirà mai a farvi capire. E' un dovere leggere e diffondere!
Non si può comprendere nulla di ciò che è accaduto all'idea comunista se non si incontrano le pagine di questo preziosissimo libro.
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Scritto subito dopo il suicidio della superpotenza sovietica, il libro riflette in modo corale il trauma dei milioni di sovietici che lo smottamento economico, sociale e alla fine politico dello stato in cui si identificavano, oltre a privarli in molti casi delle basi materiali delle proprie esistenze, lacerò le reti di significato in cui avevano inserito il senso delle proprie vite individuali. Come al solito Aleksievič, silente testimone e cronista dei flussi di coscienza dei suoi interlocutori, deposita in pagine sobrie e toccanti la rifrazione individuale di lesioni collettive, al modo di altri suoi "racconti documentari" che indagano l'effetto su singole esistenze dell'evento di Černobyl' (lo straziante e bellissimo Preghiera per Černobyl' , 1997; e/o, 2002; cfr. "L'Indice", 2002, n. 9) o della guerra sovietica in Afghanistan ( Ragazzi di zinco , 1989; e/o, 2003; cfr. L'Indice, 2004, n. 3).
Questa volta ogni storia raccontata ruota intorno a un suicidio, fallito o riuscito (nel primo caso a raccontare sono i sopravvissuti, nel secondo persone vicine al suicida): un piccolo campione di quelle circa sessantamila morti volontarie che dal 1991 avvengono ogni anno in Russia - con un aumento di più del 50 per cento rispetto al periodo sovietico, arrivando a valori più che doppi rispetto alla media internazionale. Le morti narrate da Aleksievič pongono fine, in alcuni casi, a vite meschine, trascorse nella conveniente autoillusione o nella menzogna, come quella dello studioso che si ritrova circondato da pagine sul marxismo-leninismo ormai prive anche solo di una pratica utilità di carriera, o repellenti, come quella del mercenario violentatore e saccheggiatore che tuttavia si uccide per amore.
Aleksievič non giudica o analizza, ma annota ed entra nella sofferenza di tutti. Anche in quella di chi è stato solo vittima, come il giovane pestato dai poliziotti che si era rifiutato di corrompere e che, dopo l'umiliazione, sceglie la morte. Una scelta, ci fa capire l'autrice, che spesso ha cause tutt'altro che immediate, nel passato di generazioni che accanto alla morte hanno vissuto per decenni, dandola e, alla fine, cercandola. Paradigmatica la storia di un vecchio comunista, credente fino all'ultimo, entrato nel partito nel 1918 dopo aver denunciato e fatto fucilare il suo vicino al villaggio, colpevole di aver nascosto il grano alle squadre di requisizione. Torturato nelle prigioni dell'Nkvd nel 1937, al fronte contro i nazisti nel 1941, dopo il crollo finisce aggredito e umiliato da ragazzini globalizzati che gli calpestano le medaglie. Ma anche la maggioranza delle vecchie generazioni la violenza l'ha solo subita, come la bambina mandata nel gulag con la madre quando aveva pochi mesi, cresciuta poi in un orfanotrofio dove le avevano inculcato l'amore per il dittatore suo carnefice.
Le pagine dedicate a coloro che "avevano creduto", o che ancora credono, mostrano la grande capacità della scrittrice di far emergere i perversi meccanismi di adesione individuale a valori inculcati: l'anti-individualismo, il produttivismo, il sacrificio di sé tipici della propaganda sovietica, che si confondevano con uno sciovinismo nutrito dall'isolamento dal mondo esterno. Aleksievič ci mostra il posto centrale che in questo universo ideologico e morale avevano il culto della morte e lo speculare disprezzo per la vita. L'incanto per la morte sembra aver infatti segnato generazioni di sovietici, dall'adorazione per la salma imbalsamata del fondatore dello stato al totale spregio per la vita dei propri cittadini mostrato dalle politiche staliniane, uno spregio che dai vertici si diffondeva nella società; dalla glorificazione di coloro che morirono eroicamente durante la grande guerra patriottica al ricordo istituzionale delle decine di milioni che in essa perirono, rilegittimando il regime con la vittoria e fornendogli materiale per una nuova mitopoiesi basata ancora una volta sul sacrificio e sulla morte individuale. Una scrittura mitica del passato capace di dare senso alle vite di coloro che avevano combattuto e di coloro che, nati dopo la guerra, in quei miti erano stati allevati. In ogni famiglia qualcuno era morto in guerra "per lo Stato": il culto dei propri defunti si fondeva inevitabilmente e funzionalmente con il militarismo patriottico.
La storia dell'Unione Sovietica ha dato ai suoi abitanti una familiarità con la morte, con la morte violenta, che è difficile comprendere per un europeo occidentale. Il "romanzo di voci" di Aleksievič è anche uno strumento per accostarsi a questa terribile intimità.
Niccolò Pianciola
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