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Mi è piaciuto solo "Agosto nero", che mi ha ricordato il bel film visto di recente "Quando la notte". Sono tutti racconti ben scritti, ma diventano presto noiosi e un po' ripetitivi. Addirittura brutto "La ragazza angelo", di cui francamente non credo nemmeno di aver capito il senso finale. Più che un'esplorazione dell'amore ci ho trovato un campionario di disagi sociali ai limiti del patologico che investono tutti, uomini donne e persino bambini e adolescenti.
Fisico e crudo, a tratti persino violento. Una scrittura apparentemente asciutta che invece si insinua mentre scorri le parole. Certe ossessioni appartengono ad ognuno di noi, anche se ben celate.
Ho inserito un racconto estratto da questa raccolta nell'antologia che ho recentemente curato qui in Slovenia, perche' lo stile dell'autrice mi sembrava - e mi sembra tutt'ora - ineguagliabile, soprattutto nel descrivere poeticamente il labile, etereo rapporto intercorrente fra l'uomo e la morte. L'amore di Simona Vinci, per l'appunto, mi appare una scusa per parlare della morte e cosi' - come tutte le ''scuse'' - introdursi nella ''vita privativa'' di molte persone moderne. Un libro profondo, antimoderno, tardoromantico o direi ''parnassiano''. Bello. Non ottimo ma da leggere di sicuro... con tranquillita' interiore e... soprattutto temporale. Calma. Sergio Sozi
Recensioni
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Simona Vinci, dopo il fortunatissimo romanzo Dei bambini non si sa niente, propone adesso In tutti i sensi come l’amore: una serie di tredici racconti brevi e per lo più inediti, se si eccettua Cose – raccolto nel volume Anticorpi (cfr. "L’Indice", 1998, n. 2) – e Agosto nero – apparso, in forma un po’ diversa, in "il diario della settimana"; racconti brevi e apparentemente privi dell’ambizione di tracciare un percorso comune. Se si eccettua lo stile, certamente omogeneo, asciutto e lessicalmente uniforme, ma che pure talvolta riesce a prodursi in improvvisi scatti e "metafisici", questi nuovi racconti si trovano infatti, a prima vista, in una condizione di assai generica parentela. Anche il tema dell’amore, annunciato nel titolo, non è che un termine di paragone, una metafora, perlopiù tenuta sullo sfondo. Ma a veder meglio c’è qualcosa che tradisce il desiderio di parentela più stretta: il clima, in quasi tutti i racconti, è un po’ quello di fine della storia, in cui uomini e donne, di tutte le età ma in modo particolare i più giovani, meglio ancora se mediamente colti e senza asfissianti preoccupazioni economiche, per sfuggire al diffuso vuoto d’anima del nostro tempo si affidano all’immediatezza corporale ("in tutti i sensi come l’amore", spiega il titolo). Ma che questa non sia una buona idea, che non ci sia nulla di rassicurante in questo neomaterialismo, Simona Vinci lo fa capire rendendo a sua volta il corpo un luogo metaforico: i corpi dei protagonisti di questi racconti sono quasi sempre straziati, mutilati, anonimi, tant’è che frequentano preferibilmente gli ospedali e i cimiteri. Emblematico è Da solo. Il protagonista, per l’appunto anonimo e per l’appunto ricoverato in ospedale per una malattia mortale ma anche questa senza nome, scrive lettere d’amore a una ragazza travista dalla finestra di casa. Lui, che già sapeva della propria malattia, non riusciva tuttavia a trattenersi dallo spiare l’attività erotica della ragazza. All’iniziale, non ammessa invidia segue la nostalgia e il desiderio di lei: ma non si tratta più di una dimensione unilateralmente corporale, adesso. Lui, che pure sta per "sparire" e che comunque si trova regredito a una dispersione indomabile nei mille rivoli dei sensi, affida all’immagine della ragazza un pathos utopico di cui è difficile non accorgersi e che si presenterà alla fine del libro. Anche se si tratta di un’ossessione e non ancora di una realtà, tuttavia qualcosa sembra emergere dalle crepe e dai rivoli della molteplicità. Dalla dispersione, dall’autolesionismo iniziale dei personaggi (quest’ultimo un po’ insistito e un po’ didascalico in racconti come Notturno e La donna della scogliera), In tutti i sensi come l’amore, verso la fine, presenta dunque un accenno di ricomposizione che forse delinea un percorso salvifico. Nel penultimo racconto, Fuga con bambina, i protagonisti compiono intanto il non trascurabile riscatto dall’anonimato in cui versavano gli altri personaggi. Un ragazzino di prima liceo una mattina diserta la scuola per "rapire" una bambina anch’essa travista attraverso un vetro. C’è anche della pedofilia in questo gesto, ma c’è soprattutto l’innocenza di una rinascita che segua una precedente morte. È come se gli ospedali, i presagi di morte dei personaggi precedenti siano stati ormai dimenticati: i bambini annunciano oggettivamente un rinnovamento della vita. I due, ragazzino e bambina, riescono adesso a donarsi i loro nomi: Cris e Giulia. È l’unica cosa che hanno da dirsi ("La nostra conversazione era già finita. Non ha più parlato. (...) O forse, tutto quello che avevamo da dirci, già lo avevamo detto. Giulia e Cris."), ma avere un nome, esserne certi, è già moltissimo. Non è un dono da poco. Alla conquista del proprio nome, della propria identità in definitiva, segue, nell’ultimo racconto, la fuga di una madre e delle figlie (anch’esse nominate) da un pessimo marito e da un altrettanto pessimo padre. È, appunto, una fuga salvifica, ma che significativamente ha come destinazione un ritorno. La meta, dalla Grecia fuggita, è Bologna, che tanto per la madre del racconto quanto per l’autrice del libro non è altro che un ritorno a sé.
recensioni di Cerasi, E. L'Indice del 1999, n. 03
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