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Corre una vena impulsiva nel sistema arterioso di Gianfranco Contini, alimentata da un gurgite caustico che spoglia il mondo dalle sue tinte consolatorie. Alla base della sua ricerca poetica agisce una forma di maturità e di distacco ironico dalle cose cui ogni suo pensiero critico riconduce. Ovunque impazza il sarcasmo disincantato con cui indica situazioni di disordine, di stravolgimento della morale e delle buone regole. Dalla folgorante immediatezza con cui stigmatizza l’umiliante seduzione degli intrighi politico-economici, alla vibrante condanna con cui denuncia gli esiti distruttivi di una mentalità tecnologica, i suoi versi non risparmiano alcun luogo comune. Sono al contrario frammenti crudi e febbrili con cui sferza vizi e conformismi, con cui percepisce la realtà come un percorso obbligato di vacua omologazione. Di questa amara riflessione dà conto la vibrante silloge di rime nude e spigolose di questo cantore afflitto da una modernità lacerata e lacerante, disperatamente proiettata verso un futuro con cui egli non sa venire a patti. Perché essa coincide irreversibilmente con una terribile bellezza, con una palingenesi gaudente il cui prezzo è la distruzione della natura e della tradizione, l’amputazione dell’anima. Contini oltre che poeta è anche psichiatra e dunque sa bene che non l’eliminazione dei sintomi, né l’adattamento alle regole del gioco sociale sono lo scopo precipuo di ogni sana terapia, ma piuttosto la chiarificazione del senso o del nonsenso immanente a questa vita. E on coltiva dunque l’ingenua illusione che sia possibile guarire da essa. Un libro fremente e tormentato che, oltre la tensione liberatoria, esibisce un pathos singolare, la sincerità di una percezione dolorosa in cui la tinta cupa del tramonto ed il bagliore della speranza del giorno combattono strenuamente
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