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Questo e` un libro bellissimo. Giordano Meacci narra non soltanto il novecento e la vita di Pasolini professore, ma anche la nostra vita e la ricerca disperata di ogniuno di noi per significato e redenzione. La scrittura poetica di Meacci mi ha incantato e riempito di molti sentimenti; malinconia, gioia, un grande desiderio di leggere tutto quello che Pasolini ha scritto, amore per l'Italia, e un senso di voler essere fedele alla realta`. Le appendici di Massimiliano Malavasi e Francesca Serafini sono piccoli gioielli! Leggete questo libro!
Recensioni
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D'Amicis, Carlo, Ho visto un re. Luciano Re Cecconi, l'eroe biancazzurro che giocava alla morte ed Š morto per gioco, Limina, 1999
Meacci, Giordano, Improvviso il Novecento. Pasolini professore, minimum fax, 1999
recensioni di Antonelli, G. L'Indice del 2000, n. 04
Chi scrive (qualunque cosa scriva) finisce sempre per comunicare, direttamente o indirettamente, qualcosa di sé al lettore, e ogni biografo è - almeno in parte - vittima di un processo di transfert, che lo porta a solidarizzare col soggetto della sua ricerca. Ma in questi due libri succede qualcosa di più: la ricostruzione della vita di un personaggio pubblico diventa lo spunto per rievocare la propria vicenda personale, l'altro diventa uno schermo del sé. Il già ricco panorama dei generi mescidati si arricchisce così di un nuovo cocktail, in cui trovano posto - secondo proporzioni diverse - una parte di autofiction alla Mari, una parte di reportage narrativo alla Veronesi, una parte di racconto-verità alla Cerami dei Fattacci, una parte di biografia romanzata (ma Citati non ci ha a che fare). Lo battezzeremo etero-autobiografia.
Nell'etero-autobiografia l'inevitabile elemento soggettivo sotteso a ogni saggistica si espande fino a conquistare gran parte dello spazio a disposizione; l'io di chi scrive passa dallo sfondo al primo piano. Meacci parte da uno scrittore (il Pasolini degli anni in cui insegnava a Ciampino, 1951-1954, oscuro professore di una scuola media privata), D'Amicis da un calciatore (il Re Cecconi "motorino" della Lazio campione d'Italia nel 1974); tutti e due raccontano (bene, con un tocco delicato che sa divertire ed emozionare) gli anni della propria formazione, il modo in cui sono diventati adulti. Ma in realtà il movimento non è dall'esterno verso l'interno: il centro della narrazione è fin dall'inizio (fin dai titoli - l'"improvviso" della citazione pasoliniana va letto anche come verbo - e dagli incipit in prima persona) l'io.
Meacci dice subito che si tratta di una scelta programmatica: "quando ho cominciato a pensare a questo libro, al tentativo di ricostruire un breve periodo della vita di Pasolini e di Ciampino, mi sono accorto che l'unica strada da percorrere era quella privata, salvare le mie memorie insieme con quelle delle persone che incontravo". Le sue interviste agli allievi di Pasolini (tra cui appunto Cerami) e ai nomi della cultura italiana in qualche modo legati a Pasolini (tra cui appunto Veronesi) sono incorniciate da divagazioni narrative e a volte liriche ("un diario di viaggio che va dal febbraio al novembre del 1997") e inframmezzate da una sorta di "a parte" teatrali che, assecondando istintivi cortocircuiti mentali, saldano i ricordi dei testimoni oculari alla voce di Pasolini (poesie, romanzi, lettere, articoli).
Il discorso procede così per accostamenti analogici, sovrapponendo testimonianze orali e testimonianze scritte, umanità e letteratura, aneddoto e documentazione (fanno fede le venticinque pagine in corpo minore fittissime di riferimenti bibliografici), per dar vita al "Novecento privato" di Meacci. In questo mondo - quello in cui Meacci si è formato -, accanto a Pasolini (e a Hemingway, Fellini, Totò e molti altri) occupano un posto importante anche Goldrake, Capitan Harlock, Rickie Cunningham di Happy days. Nomi cari a "noi che abbiamo intorno a trent'anni" (come cantava Mimmo Locasciulli), che qui si trasformano in correlati oggettivi di una memoria generazionale, proprio come il Subbùteo o Subbutèo (il gioco da tavolo che riproduce in miniatura il calcio), l'Uhu ("La colla Uhu vorrei che Dio la benedicesse") o gli aggettivi "fico" e "sghicio" ("che non si sapeva bene cosa volesse dire, ma che aveva un suono fico pure lui") citati da Carlo D'Amicis.
E tanto per Meacci quanto per D'Amicis in questa costellazione cult campeggia l'alter ego cui è dedicata la biografia. Nel primo la proiezione è mediata dai libri ("erano gli anni delle infatuazioni narrative, i libri erano un'eterna ricerca di risposte") e dalle persone che hanno conosciuto Pasolini; scorre sotto traccia e si risolve soprattutto nei flashback, nei déjà vu provocati dal viaggio a Casarsa e dal pellegrinaggio alla tomba (la morte violenta di Pasolini cade il 2 novembre 1975, quando Meacci aveva appena quattro anni).
Nel secondo, invece, l'immedesimazione col personaggio-mito ("posso ben dire che in Luciano Re Cecconi io vedo un'immagine di Dio") è esplicitamente tematizzata, tanto da diventare lo snodo centrale di tutto il libro (un "convulso traffico di identità", con "una proliferazione dei punti di vista, e dei piani temporali, che solo l'io agile ed elastico di un bambino poteva coordinare"). L'alter-egocentrismo è provocatoriamente spinto fino alla trasfigurazione: le interviste e tutta l'inchiesta giornalistica vengono riassorbite in un dettato narrativo in prima persona, in cui la voce virtuale dello stesso Re Cecconi racconta la propria vita. Ogni capitolo è equamente diviso tra una prima parte in cui parla l'io-Carlo e una seconda parte in cui parla l'io-Luciano; in mezzo i documenti (ogni volta una fotografia e un articolo di giornale) a fare da spartiacque.
L'asimmetria delle vite parallele è in questo caso meno accentuata (D'Amicis ha visto giocare Re Cecconi, ha raccolto dalle sue mani un prezioso autografo) e le due linee convergono in un punto preciso, il 19 gennaio del 1977 (D'Amicis aveva tredici anni), giorno in cui il calciatore viene ucciso per sbaglio da un gioielliere: "quando è morto Re Cecconi, non potendo essere più lui, mi sono presentato all'oratorio con l'idea di diventare io. Con il fiero proposito di far emergere la mia personalità. Di farmi grande". Com'è proprio di una visione mitica, la morte di una parte di sé segna la fine dell'infanzia: è il rito di passaggio all'età adulta, il delicato trapasso verso la faticosa costruzione di una propria identità.
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