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Scrive Pavel Hru?ka nell'introduzione che talvolta «? i bilanci e i ricordi del soggetto lirico siano situati quasi 'ai margini del mondo' (nel deposito scenografico del teatro, sulla spiaggia di un lago, in periferia, ecc.) e la loro cornice diventino anche i momenti del crepuscolo o altri cambiamenti luminosi». Anche la città, un tema ricorrente nell'autore, «viene trattato con nebbiosa ambiguità o quasi con indefinitezza astratta?» Pure l'ambito della terminologia teatrale viene richiamato in Halmay perché «molte sue poesie possono essere considerate anche come una sorta di atti drammatici, dove le oggettività raffigurate acquistano una loro autosufficienza: affascinantemente illuminati e "fissati", si manifestano in una sorta di vuoto scenico, impietosi e necessari nella loro presenza improvvisa e suggestiva.» Infine, in controtendenza con certa autocelebrazione acritica che serpeggia in ambiti poetici, conclude Hru?ka: «Ad un attento lettore i testi di Halmay fanno di certo venire in mente ciò che sottolineavamo all'inizio, cioè l'insoddisfazione dell'autore per (o anche davanti al) la propria opera, poiché le considerazioni sulle possibilità e le limitazioni del gesto letterario/creativo fanno parte dei temi centrali che caratterizzano fino a questo momento la produzione del poeta. Se egli guarda al processo di creazione poetica, tra l'altro, come ad una sorta di autoanestetico, qualcosa di ridicola illusorietà ("Scriver versi? / Che decadenza! / Amare l'impronta del tempo / nel proprio cervello?"), non possiamo però considerarla come una facile scusa o uno sforzo metatestuale di "coprirsi le spalle" davanti a potenziali critici o interpreti. L'ethos di questa poesia è determinato anche dalla tensione tra l'essere conscio della relativa inutilità e stoltezza della creazione poetica e la coscienza di una certa impossibilità a non compiere proprio un tale gesto sciocco.
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