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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2013
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Da quel bianco scolapasta zeppo di capelli che era la sua testa, Mark Twain sapeva spesso far grondare la miglior rugiada di una definizione: "Se gli animali potessero parlare, il gatto avrebbe il raro dono di non dire mai una parola di troppo". Com'è vero, e come calza ad arte questa frase in questa nostra vicenda. Satana (questo il nome del felino), "nero come la pece, con gli occhi di zaffiro circondati da riflessi di fuoco", torna un giorno a casa con le zampette sporche di sangue. In quali svaghi curiosi si è perduto? In quali cortili, angoli e stradine ha passeggiato? Questo è il racconto di un palazzo facoltoso coi suoi enormi intrecci di scale e le sue fughe di saloni, ma anche di un grande condominio popolare simile a un enorme alveare umano. E' forse in quel percorso fra uno e l'altro che Satana ha depositato le sue tracce? O in qualche altro sbieco e sparpagliato tragitto della sua libertà? Cos'è successo? Molto curiosa, e forse non casuale, sarà una riflessione di De Vincenzi durante le indagni: "Talvolta le circostanze hanno una tale forza da piegare l'acciaio dei nomi e da contorcere e sformare le parole, che non sono mai vacui simboli ma proprio consistenti valori umani". Il passato torna dopo molto tempo a riscoprire ruggini mai sedate, una strana e ricchissima famiglia al centro di interessi sospesi, di lutti mai spiegati, di inimicizie calde su cui sembra soffiare, a detta di qualcuno, "il mantice della maledizione". Piccoli uncini a cui aggrapparsi dentro mura di silenzio e reticenza, in una vicenda nella quale "gli indizi che un delinquente lascia, gli errori che può commettere, valgono poco se il Caso non aiuta l'investigatore". Tre postille a margine: 1) Nel Palazzo abita una persona non molto sana di mente. 2) Chi balbetta questa recensione adora l'autore. 3) Si legge a un certo punto: "Shakespeare non è di moda, ma se tu lo citi di colpo fa sempre impressione". Che vorrà dire? A voi sbrogliare quest'elegante e intricata matassa.
Che i gatti siano esseri superiori, io l'ho sempre detto. In questo libro ne avrete la conferma. ⠀ Torniamo nella Milano degli anni 30 con il Commissario De Vincenzi. Omicidi, gang mafiose, belle americane e nobildonne milanesi ingioiellate. In un omicidio a cui non sembra esserci soluzione, saranno delle zampette insanguinate a risolvere i dubbi del commissario. ⠀ Un bel giallo per gattare e non!
Recensioni
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In un famoso intervento degli anni trenta (Il romanzo poliziesco, 1932), Alberto Savinio sosteneva che fosse impossibile conciliare la tradizione letteraria italiana con il "romanticismo criminalesco" della cultura popolare anglosassone Nello scetticismo di Savinio si affacciavano le contraddizioni della nostra prima industria culturale. Di fronte al successo dei generi letterari di largo consumo, come il poliziesco, il fascismo oscillava tra le operazioni censorie e il tentativo di creare, pilotandola, una letteratura popolare (poliziesca, in particolare) di impronta nazionale. E accadeva che, non solo per ovviare all'ostilità dei letterati della "bella pagina", ma soprattutto per la necessità di depurare l'immaginario collettivo, si incoraggiasse una notevolissima scuola di poliziesco autarchico. Di questa prima ondata di professionisti italiani del giallo Augusto De Angelis è la figura più rappresentativa. Importante giornalista, primo autore di detection novel seriale in Italia con i romanzi del commissario milanese De Vincenzi, De Angelis abbandona il sensazionalismo appendicistico che ancora dominava il gusto letterario popolare, volgendosi verso un giallo a sfondo psicologico-esistenziale sotto molti aspetti simile, come notava Oreste Del Buono nel primo repechage delle storie di De Vincenzi, negli anni sessanta, alle contemporanee esperienze di Simenon e di Hammett.
Avvalendosi di una sorvegliata scrittura professionistica, De Angelis preferisce far leva sull'architettura dell'edificio narrativo e puntare a una costruzione solo graduale dell'effetto romanzesco. Non sacrifica la letterarietà a vantaggio dell'indagine poliziesca, ma porta in primo piano la figura del detective, sottolineandone il rapporto privato con il delitto e il desiderio empatico di entrare nella mente criminale. Un'operazione raffinata, con il protagonista che si avvicina al modello americano del "detective celibe, anonimo, a caccia di delitti nel territorio urbano", ma intrattiene un rapporto tutto letterario con la realtà, attraverso la quale filtra una passione intensa per le cose che fa pensare a Scerbanenco (Bini).
L'impronta del gatto (1943), sesto titolo che Sellerio dedica alla riedizione dei gialli di De Angelis, è una classica storia di vendetta. Al centro c'è una famiglia di contrabbandieri di lusso di origine venezuelana (i Semerari). La vicenda si snoda tra un grande edificio di piazza del Carmine, dove avviene il primo delitto, corso Venezia (Palazzo Semerari) e una bisca fuori Porta Sempione (Villa Verde). Sintomatico è il ruolo del gatto del titolo. Con le zampette bagnate di sangue, guida De Vincenzi nei primi passi dell'indagine, una allegoria del caso, il "nume tutelare di tutti coloro che si trovano alle prese con il mistero": "Mentre Vercelloni, a frasi scucite, ancora turbato, faceva il suo racconto, il cervello di De Vincenzi lavorava. Il Caso! Sempre il Caso era l'alleato di ogni investigatore e il nemico dichiarato del criminale". De Vincenzi (per il quale il predominio della casualità sottintende lo sgretolarsi di una visione positiva del reale) ricorre "agli strumenti tipici dell'intellettuale decadente: intuizione, sensibilità, psicologia" (Pistelli): "Lui conduceva sempre le inchieste a quel modo: affidandosi all'intuizione e cogliendo le occasioni del momento". L'intreccio si complica progressivamente, il "bello si affaccia a indagine inoltrata" (Benvenuto).
L'indagine del commissario è soprattutto "considerazione psicologica del clima del delitto e delle persone, che si muovono dentro e attorno al dramma" come scrive De Angelis nella Conferenza sul giallo (in tempi neri) (pubblicata nel 1980 dalla rivista "Lettura"), in esplicito omaggio a Van Dine e come l'osservazione attenta dell'expertise artistica richiede non metodo, ma riflessione ed empatia. Il commissario è infatti un "sensitivo, in fondo, un romantico a cui lo studio dell'anima umana, a ogni nuova esperienza, procurava soltanto dolore. Qualcuno aveva detto di lui che, come il demonio cercava più le anime che i corpi (
) Un povero demonio, lui! (
) E un tristo mestiere il suo: cercatore di anime".
E la detection psicologica di De Vincenzi si riflette sulla struttura narrativa. Anche nell'Impronta del gatto il commissario sa chi è il colpevole, ma non ha le prove e per incastrarlo ed è costretto come sempre a tendergli una trappola: "Il momento della lotta decisiva si avvicinava. Egli aveva passato la giornata a prepararlo. Adesso si sentiva invadere dalla paura. Aveva soprattutto paura che i suoi calcoli si avverassero errati. In fondo, lui non si era affidato che all'intuizione. Di prove di quelle prove, che si possono produrre in giudizio neppure una!". Valentino Cecchetti
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