Articolato intorno a un prologo e sei capitoli, dedicati rispettivamente ai temi del mostro, dell'omuncolo, dei titani, della ghigliottina, dell'acefalo e, infine, del museo inteso come simbolo della morte della cultura, Jean Clair ripropone in questo denso pamphlet una serie di problemi già affrontati in note e saggi dal 1989 al 2010, sviluppandoli all'insegna dell'hybris con particolare attenzione all'età contemporanea (il sottotitolo fa infatti riferimento alla mostruosità dell'arte moderna).Il tono dell'autore è quello dell'umanista ferito che si erge a baluardo della civiltà minacciata o forse già estinta: provvisto di un curriculum studiorum e di un'esperienza museale da far tremare le vene e i polsi, Jean Clair si gloria oggi di essere un reazionario, non essendo a suo avviso più necessario cambiare il mondo ma conservarlo. Lo studio delle civiltà in senso lato e delle loro trasformazioni a lungo termine, che fa riferimento alla tradizione storiografica francese delle Annales, caratterizza anche l'approccio di Jean Clair, che inizia la sua disamina con un'analisi dell'impatto avuto sull'arte da una serie di scoperte scientifiche ottocentesche (fotografia, cinematografo, raggi x, ecc.). Sono proprio tali invenzioni a far tramontare la tradizionale concezione dell'anatomia e ad annunciare l'ingresso nella nostra cultura dei mostri, che sono sempre esistiti ma "si sviluppano nel Novecento, per imporsi oggi con singolare veemenza": Hybris narra la storia di questa trasformazione, che trova il suo fulcro in quel laboratorio della modernità che è stato il XIX secolo, da Jean Clair già indagato in una serie di mostre celebri in cui l'arte veniva letta in chiave interdisciplinare, in uno stretto confronto con la storia della civiltà e, in particolare, della scienza. È grazie a questa visione a 360°, in cui mito e contemporaneità dialogano senza soluzione di continuità, che l'autore individua i momenti salienti dell'apparizione di un corpo fuori misura e fuori dell'ordinario (omuncoli, titani etc.): divisa tra le opposte polarità dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente grande, la figura umana ha perso l'armonia che la contraddistingueva per trasformarsi in colosso o annullarsi nella massa informe. È il romanticismo che "apre alla hybris antica come componente essenziale della modernità": qui ha inizio un lungo excursus che va dal Saturno di Goya al Big Man di Ron Mueck (2000), passando attraverso i regimi totalitari in cui alla figura del gigante fa riscontro una folla senza nome che rappresenta la diluizione dell'individuo nella massa organica dello stato. Il tema verrà ripreso anche nel capitolo conclusivo, in cui la massa informe si ripresenta, nel mondo attuale, come pubblico che affolla il museo senza un perché, apparente segnale di successo dell'istituzione ma in realtà, secondo Clair, conseguenza di una sterilità totale della cultura odierna di cui la proliferazione cancerosa dei musei sarebbe la prova evidente. Il capitolo La ghigliottina e il clavicembalo, infine, presenta un'affascinante lettura del Passage du Commerce Saint-André (1952-1954) dell'amato Balthus, che diventa l'occasione tramite alcune coincidenze e suggestioni per un'analisi della storia della macchina rivoluzionaria che dispensava la morte secondo presunti criteri progressisti ed egualitari, ma che secondo l'autore aveva piuttosto segnato una cesura tra illuminismo e romanticismo, favorendo la sostituzione degli algidi canoni neoclassici con una bellezza terrificante, mortifera e medusea. Fa da corollario al tema lo studio dell'iconografia di teste mozzate dall'Ottocento fino al surrealismo e, parallelamente, di quella del corpo acefalo che culmina nell'analisi della rivista "Acéphale", fondata da Georges Bataille nel 1936. Lettura avvincente e a tratti irritante, per le forzature cui Jean Clair talvolta si abbandona pur di mantenere il punto, Hybris si può accostare ad altri saggi di successo in cui la storia dell'arte è declinata come storia della cultura e della civiltà: fra i molti esempi possibili, si chiama qui in causa La testa senza il corpo. Il viso e l'invisibile nell'immaginario dell'Occidente di Julia Kristeva (1998; Donzelli 2009), che condivide con il libro qui recensito diversi temi ed aspetti. Certo, rispetto a Jean Clair, Kristeva si differenzia per un'attitudine più distaccata rispetto alla materia trattata e soprattutto per l'impostazione metodologica di stampo prettamente psicoanalitico. La studiosa di origine bulgara si abbevera alle stesse fonti di Clair per quanto attiene al tema della decollazione, ma giunge, nonostante la consonanza degli argomenti, a esiti molto diversi, non mirando tanto a tracciare un profilo apocalittico di sviluppo e decadenza della civiltà, quanto piuttosto e questa potrebbe considerarsi una risposta alle tesi dell'autore di Hybris a evidenziare le costanti della psiche umana che affiorano attraverso i secoli e le culture. Alessandro Nigro
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