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Da quali ingorghi di cielo può spuntare un verso perfetto? Da quale zuffa di elementi dissimili? Da quali coltri incresciose? Se aspettiamo che il mistero si sveli possiamo già accomodarci sul ciglio dell'illusione, ma se tocchiamo l'esito di quelle lotte anzidette, non possiamo che stringerci contenti nei magnifici regali che giungono. Quanto può superarsi il lievito della fantasia se bastano quattordici parole a scolpire un capolavoro. La poesia si intitola Angurie, eccola: "Verdi Buddha / nel chiosco della frutta. / Ne mangiamo il sorriso / per sputarne i denti". Al poeta non serve che il poco, lo scarto, la buccia, l'inservibile, i binari della mente partono lo stesso, il laccio fra due parole, due immagini, un intero poema, solleva ugualmente ali perfette verso mondi di squisitezza inattesa. Ce la fa col divertimento, con lo sberleffo, la schicchera, un improvviso che sovverte di colpo le rozze impalcature dell'ovvietà e mira dove nessuno guarda, dove nessuno intuisce, alzando parole come astri alla portata. Saturno, malinconico cuore, può prendere i suoi anelli con rabbia e strizzarli come uno straccio consumatissimo; ne uscirà linfa magnifica. Leggiamo la gratitudine a Shelley: "Poeta delle foglie morte soffiate via come spettri,/ come moltitudini falciate dalla peste,/ ti lessi per la prima volta a New York, una sera di pioggia,/nel mio atroce accento slavo,/recitando i versi suadenti da un libro malconcio,/costellato di macchie...". Fessure e vicoli dello spirito dunque non possono che lasciare che la parola sgorghi, certa, assurda e commossa come i tantissimi suoni della vita rimestati all'infinito. Mai stupirsi allora "quando la Donna di denari ti siede nuda in grembo", mai spaventarsi "quando la prima briciola cade dalla tavola/e pensi che nessuno la senta mentre tocca terra./Già da qualche parte/le formiche mettono/il cappello da quacchero/e si preparano a farti visita". Nessun nome si salva contro il vivere, ma il Poeta ci salva da un vuoto morire.
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