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Confermo quanto già detto dalla lettrice che mi ha preceduto (nadia), libro eccellente e... sensuale. Segnalo un paio di pecche 1) forse non avrei tradotto il titolo 2) il libro avrebbe beneficiato di un'introduzione che avvicinasse il lettore alla letteratura delle minoranze etniche americane (in questo caso dei cubano-americani), il libro ne avrebbe tratto beneficio e, probabilmente, avrebbe riscosso maggior successo.
E' una storia bellissima che merita sicuramente di essere letta: io l'ho divorata addirittura pentendomi, poi, di essere arrivata tanto velocemente alla fine, ma non potendo leggerlo in un altro modo. Il libro é molto ben scritto a mio parere e soprattutto la parte centrale, che tratta la storia tra Teresa ed il Che, é particolarmente intensa. Lo consiglio davvero a tutti e mi auguro che la scrittrice non aspetti troppo a scrivere qualcosa di nuovo a questi livelli.
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Ana Menéndez, figlia di genitori cubani emigrati negli Stati Uniti, è giornalista e già autrice di una raccolta di racconti ( In Cuba I was a German Shepherd , 2001) inedita in Italia, frutto di un master in scrittura creativa compiuto all'università di New York. Ora, con il suo primo romanzo Loving Che , pubblicato subito in svariate lingue, la giovane autrice entra a far parte di quella ormai folta schiera di scrittori latinoamericani trapiantati negli Stati Uniti che scrivono in inglese. Accomunati da questa lingua acquisita nell'infanzia insieme allo spagnolo, sono autori - anzi, più spesso autrici, se si pensa a Cristina García, a Rosario Ferré, a Sandra Cisneros, per citare narratrici tradotte anche da noi - nati dalla spontanea ibridazione culturale conseguente una sempre più massiccia emigrazione dal Sud al Nordamerica. Si tratta, in genere, di un'emigrazione piuttosto recente, per cui avviene che la generazione come quella di Ana, che non deve superare la quarantina, al momento di intraprendere un'attività letteraria, predilige la lingua inglese salvo alimentare la propria narrativa con temi, personaggi e ambientazioni che attingono all'eredità culturale ispanica familiare.
Cresciuta a Miami insieme al nonno che si è sempre rifiutato di fornirle dettagli relativi al resto della famiglia, l'anonima narratrice del romanzo di Ana Menéndez è preda di una giustificata e progressiva ossessione riguardo al proprio passato, soprattutto a partire dal giorno in cui, all'improvviso, il nonno decide di consegnarle il pezzo di carta che la neonata portava puntato al golfino il giorno della fuga da Cuba - dove la madre è rimasta - all'indomani della rivoluzione. Vi si leggono pochi ma significativi versi di Pablo Neruda, che in traduzione suonano: "Addio, ma tu con me / sarai, dentro di me verrai / in una goccia del sangue che circola nelle mie vene". La ragazza vi legge il messaggio di una madre che non intende perderla per sempre, e decide di mettersi sulle sue tracce in ripetuti quanto infruttuosi viaggi nell'isola caraibica, fino al giorno in cui le giunge dalla Spagna un misterioso pacco contenente una scatola piena di fogli e di fotografie. Il manoscritto porta un titolo: Ho amato il Che . Da qui in avanti la cornice del presente si apre per lasciare spazio al passato, ovvero alle confessioni intime di una donna sposata, un'artista plastica, che narra giorno per giorno la sua poetica love story con Ernesto Guevara. Gli indizi forniti dalla misteriosa scatola getteranno una nuova luce sull'ipotetica madre e rinnoveranno nella figlia la speranza di rintracciarla.
La prima reazione dinanzi a questo romanzo d'esordio di una giovane scrittrice cubana è di pensare che l'argomento e i temi trattati non potevano essere più prevedibili, se non li salvasse il garbo con cui vengono rielaborati. Vi si trova l'inossidabile figura del Che immortalata in pose più o meno note (e in fotografie che fanno da contrappunto al testo); la peculiarità dei cubani di Miami ritratti nel loro rapporto conflittuale e ossessivo con l'amata/odiata isola; i ricordi della rivoluzione passati al setaccio di una dialettica fra illusione e delusione, euforia e prostrazione, che fa pronunciare a un personaggio frasi come: "La parola stessa, rivoluzione, implica il proprio fallimento. Non fa che girare, prigioniera della fortezza della semantica, condannata a tornare sempre al punto di partenza". Non manca una disamina della condizione di esilio - del resto condivisa dall'autrice stessa e dalla sua famiglia - vissuta come separazione traumatica dalla propria terra d'origine: "All'esule, qualunque sia la causa della sua condizione, capita di sentirsi come un viaggiatore che si sveglia in una stanza sconosciuta e non trova più la porta da cui è entrato (...) accettare il distacco e imparare a muoversi nel mondo senza bramosie o mistificazioni richiede anni di paziente apprendimento, e può anche accadere, un giorno, di scoprire che gli anni hanno scavato un'oscura voragine sotto i nostri piedi". Poiché, il più delle volte, il distacco vero e proprio non va a buon fine, come nel caso specifico dei cubani fuggiti in Florida: "A Miami le patologie e le bellezze dell'Avana sono risorte in tutto il loro splendore. Talvolta penso che questo esilio sia stato poco più di un passaggio attraverso uno specchio". In altri casi, invece, il cubano sembra trovarsi pienamente a suo agio in tale condizione, e la voce narrante spiega il fenomeno, in modo tanto sbrigativo quanto suggestivo, con il fatto che "il cubano più famoso del mondo è un egotista (leggi Fidel) e il secondo uno straniero (Che Guevara). Non c'è da stupirsi se interpretiamo così bene il ruolo degli esuli".
Se è sempre azzardato avventurarsi a immaginare brani di vita vissuta di personaggi storici carichi di significato simbolico, quando non mitizzati, come il Che, il romanzo di Menéndez si redime catturando il lettore grazie alla qualità della scrittura. Suggestiva e poetica, saggiamente intercalata da silenzi e dati nascosti che lasciano spazio all'immaginazione del lettore, questa scrittura riesce talvolta a insinuare richiami fra la biografia reale dell'autrice e il manoscritto trovato in una scatola che si intitola come il romanzo, al punto da sospendere la sua incredulità in favore di una presunta verità testimoniale. È ovvio che in questa trappola può cadere - e perché no? - solo qualcuno che non conosca a fondo i documenti relativi all'eroe della rivoluzione cubana, da cui l'autrice ha liberamente attinto, come confessa in una nota finale, mescolando ad arte verità e finzione. Ma quanti, davvero, ricordano in dettaglio la sua biografia, da non preferire abbandonarsi alla suggestione, seppure illusoria, di frugare nella vita intima del Che?
Vittoria Martinetto
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