Di Christopher Hitchens, giornalista, polemista e scrittore, si diceva spesso: "O lo ami o lo odi". Il suo libro di memorie esce in Italia a qualche mese dalla sua morte per tumore, avvenuta nel dicembre 2011, a Huston, nel Texas. Ed è quest'ultimo doloroso capitolo della sua vita, quella della lotta contro una malattia terminale, narrato con coraggio e lucidità, che ha conferito a Hitchens una statura morale e, direi, una fama transnazionale che vanno al di là di quella del corrosivo polemista. La prefazione all'edizione tascabile originale, ripresa da quella italiana, fu scritta in ospedale, in piena consapevolezza della morte imminente, una postazione che dà al suo vecchio cavallo di battaglia, il rifiuto della religione, una forza particolare. Le sue memorie sono, in buona parte, una tumultuosa galoppata nei fasti del giornalismo del secolo scorso, quando un giovane brillante poteva ancora passare, senza soluzione di continuità, dai banchi dell'università alle redazioni di Fleet Street e dintorni. Erano tempi in cui i giornalisti, chiusa la pagina, andavano a bere, e nelle redazioni fumavano pure. (Non a caso, la foto di copertina dell'edizione inglese di Hitch 22, uscita nel 2010, ritraeva l'autore con una sigaretta in bocca: uno scatto quasi fuori tempo). Opinionista fin dalle primissime battute, Hitchens ha continuato a intrecciare i suoi scritti con una qualche forma di militanza. Laburista dai tempi della scuola, diventò trotzkista, per poi passare, nel giro di pochi anni, al sostegno pubblico per le guerre dell'amministrazione di George W. Bush. Il libro è la storia di questa strana parabola, quella di un uomo alla ricerca della rivoluzione, e che alla fine dice di averla trovata nella "American way", a suo dire l'unica rivoluzione storica a cui sia rimasta una briciola di "verve", e che potesse tuttora offrire un esempio ad altri. La morte è presente nel libro fin dalle primissime pagine, con una strana premonizione. Il primo ritratto, quello di sua madre Yvonne, che finì per togliersi la vita in un albergo di Atene, è quello più tragico. La sua storia, insieme a quella del marito ufficiale di Marina, rievocano il lungo e grigio dopoguerra inglese dal quale Hitchens fuggì con tanto slancio. Fu solo molti anni dopo che i fratelli Hitchens scoprirono che la loro madre era ebrea, cosa che lei era riuscita a nascondere per tutta la vita, perfino a suo marito. Il capitolo in cui Hitchens ricostruisce la sua ascendenza ebraica, seguendo le tracce della famiglia fino alla città polacca di Wroclaw, è uno dei più interessanti del libro. Fu Yvonne a dare la spinta più decisa per garantire ai suoi figli la vita brillante che le fu preclusa. Hitchens riferisce di avere sentito sua madre che insisteva per mandare i ragazzi al college, passo necessario per l'agognata promozione sociale: "Se qualcuno in questo paese dovrà arrivare in alto ‒ affermò con decisione ‒ questo sarà Christopher". A Oxford il giovane Hitchens manifestò subito un gusto spiccato per la compagnia e i divertimenti dei ricchi, una propensione che, come lui stesso riconosce, si conciliava male con la sua attività di militante di sinistra nel bollente Sessantotto. Molti anni dopo, Hitchens si offese quando lo scrittore americano Tom Wolfe lo prese a modello per il personaggio di un giornalista inglese trapiantato in America, l'arrampicatore sociale Peter Fallow, nel romanzo Bonfire of the Vanities. Di viaggi l'inviato Hitchens ne fece davvero tanti, ma uno dei più interessanti fu quello che fece da studente a Cuba nel 1968, ospite in un campo governativo per giovani "internazionalisti". In questa situazione, scrisse, risultò utile la sua familiarità con i ritmi spartani dei collegi inglesi. Il viaggio coincise con l'occupazione della Cecoslovacchia da parte dell'Unione Sovietica, evento che generò un certo malessere financo nell'isola caraibica. Già qui fa capolino, però, la propensione dell'autore a rivedere i fatti alla luce dei suoi ultimi convincimenti. Solo così si può spiegare la sua assurda definizione del film magistrale di Gilo Pontecorvo, La Battaglia di Algeri, proiettato nel campo, come "squallida e viscerale idealizzazione della guerriglia urbana". Altre volte fu più perspicace, come quando visitò il Pakistan nel 2001, vedendo in quel paese il vero focolaio del nuovo terrorismo. Ma ci fu un vizio, che lui stesso attribuisce alla sinistra trotzkista che aveva conosciuto, che non perse mai: quella di demolire implacabilmente la personalità dei suoi antagonisti. La ferocia con cui trattò Bill Clinton, per esempio, risulta incomprensibile, rispetto al tocco leggero con cui scrisse del secondo presidente Bush, un uomo che commise a larghe mani un peccato per Hitchens imperdonabile: quello di operare "nell'assoluta certezza", credendo che le proprie azioni fossero "giustificate da un'autorità suprema". Più che i viaggi, un piacere al quale rinunciò con rammarico solo alla fine della sua vita, per Hitchens hanno contato gli amici. (Della famiglia si parla assai poco, se non per notare che è stato un padre colpevolmente assente). Il libro è dedicato al suo mentore e amico dai tempi di Oxford, il poeta e inviato di guerra James Fenton. Sono numerose le celebrità nel pantheon di queste amicizie: gli scrittori Salman Rushdie, Martin Amis, Gore Vidal e Julian Barnes, il grande intellettuale palestinese Edward Said, altri intellettuali di fama come Noam Chomsky. L'unica donna del gruppo è Susan Sontag. Il confronto con Michael Chertoff, direttore della sicurezza interna di George W. Bush, o Paul Wolfowitz, presentato anche lui come amico, può sorprendere. Ma questi erano i nuovi riferimenti di Hitchens quando passò rumorosamente da sinistra a destra dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. Il capitolo sull'Iraq comprende la cronaca di questa conversione, culminata nella cerimonia di conferimento della cittadinanza statunitense, organizzata da Chertoff sotto uno svolazzo di bandiere nel giorno del compleanno di Thomas Jefferson. In questo capitolo, a dire il vero, la faziosità, anche a spese di fatti accertati, risulta fastidiosa. Le grandi manifestazioni in tutto il mondo che mobilitarono milioni di cittadini contro la guerra in Iraq sarebbero state pilotate da "islamisti". Ahmed Chalabi, un oppositore iracheno foraggiato da Washington, poi incappato in guai giudiziari per i suoi affari poco chiari, viene difeso come patriota integerrimo. Le armi di distruzione di massa, mai trovate, che giustificarono una guerra illegale, invece per Hitchens c'erano , e se non c'erano, questo era comunque il momento giusto per attaccare il criminale Saddam Hussein senza pietà. Acrobazie intellettuali di fronte alle quali, a volte, nemmeno la prosa pirotecnica dell'autore riesce a reggere. (La traduzione di un libro così zeppo di citazioni, allusioni ed espressioni colloquiali non era semplice, ma è riuscita, e le note del traduttore sono chiare e utili). Scrivere, per Hitchens, era un piacere sostenuto dal suo grande amore per la lingua e la letteratura inglese. Era colto e curioso, capace di passare ore ad ascoltare o discutere di poesia. Anche in questo era probabilmente un uomo del secolo scorso: intriso delle sue più grandi contraddizioni, prima fra tutte quella della guerra combattuta nel nome della pace. Tana de Zulueta
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