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Hallelujah Junction di John Adams arriva in Italia a soli due anni dalla prima edizione americana. Il primo e, vista l'accuratezza della traduzione, unico rammarico è che non si sia trovato il modo di rendere letteralmente il sottotitolo dell'edizione originale: Composing an American Life, preferendo un generico Autobiografia di un compositore americano. Il sottotitolo inglese, infatti, rendeva molto bene la particolarità di queste memorie che, a differenza di altri esempi scritti da illustri compositori, non mettono il lettore in uno stato di inferiorità, ma lasciano intendere che la vita del protagonista sia in fondo simile alla vita del lettore, una vita "composta", costruita attraverso scelte, errori, colpi di fortuna, prese di coscienza e incontri, un po' come le vite di tutti. Una vita "americana", poi, perché John Adams, pur essendo un compositore suonato in tutto il mondo e pur avendo diretto orchestre europee, è nato e vissuto sempre nel suo paese, dapprima sulla East Coast (Vermont e New Hampshire) e poi in California (San Francisco e Berkeley).
Il punto di vista che questo fortunato compositore dà sui grandi eventi che hanno contraddistinto l'ultimo mezzo secolo di storia statunitense è dettato da un sano buon senso e da una sensibilità vicina alle posizioni politiche del Partito democratico, per cui nelle trecento pagine di questa autobiografia non si trovano estremismi di sorta o provocazioni. Tanto che una delle etichette che i detrattori hanno affibbiato ad Adams, e contro la quale egli si ribella, è quella di "politically correct", quasi a lasciare intendere che un artista dalle posizioni così moderate e ragionevoli non possa essere un grande artista. Certo, se paragonate alle memorie di Wagner e Stravinskij, così idiosincratiche, provocatorie e scomode (ma anche alquanto mendaci), quelle di Adams sono indubbiamente meno appassionanti. Eppure il ritratto che ne esce non è quello di un uomo insipido e scialbo, ma di una persona felice, in grado di perseguire e raggiungere le proprie ambizioni artistiche sentendosi parte della società in cui vive. La modestia con cui racconta sembra esser parte del suo carattere; a un tratto, Adams si dilunga a lodare Michael Steinberg, l'estensore dei programmi di sala dei suoi concerti a San Francisco, per la sua capacità di comunicare la musica in parole. Quale altro compositore avrebbe mai scritto una cosa del genere?
Il tipico modo di argomentare di Adams è quello di far precedere una critica da un elogio, o viceversa: Schoenberg, Cage, Glass, Reich, hanno tutti un lato positivo e un lato negativo; l'unico ad avere solo lati positivi è il regista Peter Sellars con cui Adams realizzò tre opere: Nixon in China, The Death of Klinghoffer e Doctor Atomic. In alcuni casi, questo dà origine a giudizi un po' generici, in particolare quando Adams parla del mestiere del comporre, per cui capita di leggere frasi certamente vere, ma non proprio illuminanti, sulla necessità da un lato di mantenere un atteggiamento aperto e libero della fantasia, e dall'altro di fare attenzione a non lasciar debordare questa libertà nell'approssimazione tecnica. Ma ci sono anche considerazioni meno scontate, che sorprendono felicemente e testimoniano della libertà di giudizio di questo compositore. Per esempio Adams, sfidando il canone modernista, non nasconde le sue perplessità di fronte a due musicisti eretti a icona dello sperimentalismo americano, come Charles Ives e Frank Zappa, di cui pure apprezza le musiche, ma in cui riconosce tratti dilettanteschi.
Più che nelle frequenti escursioni e riflessioni sulla storia della musica, utili come ripasso ma non particolarmente originali, le annotazioni più pertinenti di Adams sono quelle sulla pratica dell'esecuzione musicale, forse perché egli si formò dapprima come strumentista di clarinetto e perché ha sempre mantenuto un atteggiamento anti-intellettualistico verso la musica. Da queste pagine, come anche dall'ascolto dei suoi lavori, traspare chiaramente che il suo approccio alla composizione ha qualcosa di ludico, senza il quale la scintilla per la creazione non scocca. Ad esempio, di questa sua particolare disposizione, egli cita il caso simile del suo amico architetto Frank Gehry, che un giorno trovò intento a schizzare a matita delle squame di un pesce, ossessionato dall'idea del modo in cui le squame si adattavano l'una all'altra. "Presto conclude Adams quella scherzosa ossessione si sarebbe trasformata in ispirazione architettonica". Parimenti, siamo informati delle vicissitudini che portarono alla creazione delle sue composizioni, descritte a loro volta in pagine dettagliate e accessibili, senz'altro utili a chi voglia approfondirne l'ascolto.
Lo stile di quest'autobiografia è scorrevole e leggibile, pur non raggiungendo mai livelli letterari eccelsi (siamo lontani dalla penna di un Berlioz). Ma gradevole è lo humour, mai sarcastico, con cui Adams racconta personaggi e situazioni. Ecco come parla di Leon Kirchner, tormentato compositore schoenberghiano, suo insegnante: "Il suo amore per i grandi maestri Bach, Beethoven, Mozart, Schubert, Brahms dimostrava che aveva il cuore al posto giusto". In questa battuta è forse riassunto il senso del viaggio musicale raccontato da Adams, un compositore che ha attraversato l'accademismo di Harvard, lo sperimentalismo delle avanguardie e il minimalismo californiano cercando di mantenere anche lui il cuore sempre al posto giusto.
Alberto Bosco
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