È sorprendente che ancora mancasse, a un palmo dal centenario, uno studio a tutto tondo sulla musica di Ligeti, uno dei rari compositori usciti dal crogiolo degli anni di Darmstadt ad aver raggiunto un pubblico più vasto (e più vario) di quello dei soli specialisti. Il
Ligeti di Enzo Restagno, uscito nel 1985 e riproposto l'anno scorso, schierava firme importanti, ma si arrestava sulla soglia dello stile tardo, mentre il successivo studio di Alessandra Morresi (2003) riprende da quel punto esatto, cioè dal primo libro degli
Études, solo a prezzo di un approccio più mirato. Questo lavoro di Ingrid Pustijanac, in breve, è la prima monografia italiana sul maestro ungherese. Scaturito da una tesi discussa a Pavia nel 2004, lo studio (lungamente meditato) si trova a fronteggiare una duplice sfida: da un lato compendiare in poche pagine un percorso idiosincratico e tra i più originali del suo tempo; dall'altro allinearsi a uno "stato dell'arte" che nell'ultimo decennio è molto progredito, anche grazie ai materiali autografi oggi consultabili. La prova, in quest'ultimo senso, risulta brillante: l'autrice si mostra sicura e disinvolta nel dialogo con la letteratura, anche e soprattutto quella posteriore alla prima incarnazione del lavoro, e si muove con grazia tra le lingue e le proposte interpretative, sfruttando a fondo vari schizzi preparatori. Anche il primo obbiettivo, per quanto possibile, è stato centrato in buona parte. Il volume si apre su un bozzetto biografico, che si segnala soprattutto per due interessanti approfondimenti: uno sui risvolti del caso Ligeti-Kubrick (cioè sull'inclusione di pezzi come
Atmosphères nella colonna sonora di
2001: A Space Odissey), l'altro sulla genesi e la storia teatrale dell'opera
Le Grand Macabre (1974-1978), che nel testo rimarrà sullo sfondo. Le successive quattro campate ricalcano sul piano della trattazione le macro-scansioni della poetica ligetiana, senza cedere a schematiche periodizzazioni, ma interrogando soprattutto i momenti di ambiguità. La fase ungherese, che un tempo si tendeva a scavalcare in blocco, perché "giovanile" o in ogni caso viziata da pressioni politiche, ma che a un esame più attento si rivela internamente complessa e ricca di anticipazioni. La straordinaria esplosione creativa degli anni sessanta, cioè l'iconica stagione degli stili statici e della micropolifonia, del
Requiem, delle
Aventures, di
Lux Aeterna, di
Ramifications... Il rinnovamento degli anni settanta, attraversato da pulsioni ironiche e surrealiste, contraddistinto da un gusto della discontinuità che si afferma con nuovo vigore, oltre che da una crescente differenziazione dei piani temporali e dei profili melodici. L'evoluzione degli anni ottanta, infine, incentrata sugli arcani del ritmo e segnata dal ritorno di figure più classiche, di pari passo con la riscoperta del pianoforte. Segue una coda sul pensiero di Ligeti, un riguardo più che dovuto, perché già nei tardi anni cinquanta l'incalzare del bisogno di spiegarsi, orientarsi, situarsi e chiarire i malintesi (anche in relazione all'universo seriale) avrebbe fatto scaturire nel compositore una vivace vena critica e teorica, testimoniata da due volumi discrittie dalle numerose interviste. Il rigoroso e cerebrale Ligeti aveva il dono della formula pregnante, dell'immagine o della metafora capaci di entrare in risonanza con l'esperienza musicale, producendo folgoranti effetti di senso, come spesso negli stralci di lettere citati da Pustijanac. Va precisato che il volume non si adagia nel formato "vita e opere", ma lo dissolve dall'interno, piegandolo ai bisogni di quella che potremmo definire "biografia di una scrittura". La produzione di Ligeti è studiata nelle sue inattese continuità come nelle sue polarità irriducibili (il mondo delle "nuvole" e quello degli "orologi"), auscultata nelle sue trasformazioni segrete, a confronto con schizzi e schemi precompositivi. Inevitabilmente, l'approccio per tematiche induce a glissare su alcuni aspetti e a comprimerne altri (come il Concerto per pianoforte), dando l'impressione, sul finale, di "stretti" un po' sbrigativi. L'impianto analitico, in compenso, è solido e differenziato, generoso di spunti e sussidi per lo studio della partitura, nonché aperto (dove occorre) a prospettive di critica genetica. Considerati questi pregi, il testo avrebbe forse meritato una più attenta cura redazionale, non tanto e non solo per certi piccoli refusi, né per una scrittura in cui restano durezze di stile, nonostante l'autrice (di madrelingua croata) si esprima sempre con chiarezza, misura e intelligenza: un'ulteriore fase di rifinitura e qualche pagina in più avrebbero dato alla proposta (che comunque si impone come un punto di riferimento) una statura e un prestigio più che accademici, assicurandole una meritata presenza editoriale. Francesco Peri